|
|
Tra tenebre e bagliori
di
|
Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autore è segnalato nel concorso letterario «J. Prévert» 2008
In copertina fotografia di Stefano Tonelli
Un respiro profondo dopo l’ansimare
Prefazione di Benedetto Di Pietro
Inoltrandoci attraverso questa raccolta poetica, riscontriamo che Stefano Tonelli ha voluto dare una precisa suddivisione alle sue poesie. Inizia con una descrizione di sé, quasi un curriculum, e dei suoi interessi culturali; prosegue dedicando alcune liriche agli amici ed ai ricordi dell’adolescenza, per inoltrarsi – ma il termine più corretto mi sembra ‘elevarsi’- attraverso sentimenti più alti, come l’amore e il suo personale e sofferto percorso interiore.
Nella sua Introduzione, il poeta dichiara che la sua visione del mondo è “duale”, basata sugli opposti. Questo concetto è riscontrabile anche stilisticamente in diverse liriche, come in “Peccato originale”; qui partendo da un’affermazione di Calderòn de la Barca, «Il delitto maggiore dell’uomo è di essere nato», Tonelli afferma «sconterò il mortale peccato / fino all’ultimo fiato», dove l’interpretazione dicotomica porta al dolore per la pena, ma anche una certa dose di felicità nel dover scontare quella pena. La brevità dell’esistenza umana è bene connotata in “Ombre di ricordi”, con i versi «la giornata è finita. // (e in una manciata / di ricordi la mia vita)» e ciò che preoccupa il poeta è l’apatia e l’assenza di prospettiva per il futuro; ma “la vita è sogno” e il sogno è anche realizzazione allucinatoria dei desideri insoddisfatti, così la preclusione a sognare diviene peggiore della morte.
Partendo da un pessimismo individuale, il poeta si inoltra in una visione più universale in cui l’uomo e la natura ne sono ugualmente coinvolti: «Oggi non direi la Natura benigna, (...) ma gelida matrona maligna…» (La paura del cane). Una continuità della vita, scandita dal vivere alla giornata, «Non si vive che nel “qui e ora“» (Ucronia), in un tempo senza passato e senza futuro, ma dove vi sono elementi che la rendono accettabile, in primis l’arte, e in particolare la musica, recepita dal poeta come consolatrice del corpo e dello spirito.
Il tempo che passa è continuamente evocato, a volte legato al passaggio delle stagioni, e il suo ritmo è scandito dal metronomo della normalità, quasi noia, della vita; così il maglio, ora del “fuoco solare” ora “agostano”, è preso a simbolo di un battito la cui scansione è insopportabile. I due estremi dell’esistenza, vita e morte, nel dualismo enunciato da Tonelli, sono in un rapporto di necessità per la loro stessa definizione: la paura della morte è anche apprezzamento della vita e l’eliminazione di entrambe comporterebbe un “nulla felice”. Però, nella sua Introduzione, il poeta ammette che «Il baricentro della mia vita e quindi della mia poetica è il rapporto col dolore, col “male di vivere”, male cui non credo che mai riuscirò a sottrarmi completamente…» e una delle possibili interpretazioni del “male di vivere” è proprio la nostalgia che nasce dal ricordo dei momenti felici.
La felicità è negata all’uomo -Tonelli cita Schopenauer -, ma per il poeta essa consiste proprio nella poesia che diventa veicolo di promozione del pensiero verso un appiglio che per quanto precario è visto come àncora di salvezza: «a me ne viene un po’ di luce» (Consolazione). E il sentirsi condannato «ad una perenne salita» è anche un vedere l’ascesa della montagna come una conquista continua, diversa dalla condanna infinita di Sisifo. Interpreto così – distaccato dalle convinzioni di Tonelli – l’apparire e scomparire nelle sue liriche, ora di una struggente melanconia ora di una ironia sottile che diventa il sale stesso della sua poesia.
Il crescendo delle motivazioni esistenziali – e poetiche – trova un approdo sicuro proprio nelle due ultime sezioni: “Parlando d’amore” e “Parlando di Dio”. Qui per il poeta l’anima e il corpo sono due aspetti della stessa sostanza: «ogni cellula della mia anima» (Oceanica sospensione), ossia anche lo spirito è materia. Diventa così molto più semplice parlare con Dio. La consapevolezza di essere amati, fa amare la vita anche nei momenti più difficili «La tua cara esistenza / mi fa sentire nelle carni e nell’animo / quanto bello duro / meraviglioso tragico / siano l’amore e la vita» (Desideri negati).
Il poeta è assillato dal dubbio di un Dio che nella sua immobilità parmenidea non si curi molto dell’uomo e si pone una domanda: «Io credo in Dio, / ma Dio crede in me?». Un Dio così pensato può essere percepito solo se fatto della stessa sostanza dell’uomo e in un contesto simile anche il mondo, con tutte le sue storture, diventa accettabile: «Viviamo nel migliore dei mondi possibili / e tutto è perfetto così com‘è» (Perfezione divina). «Il mio dio / è un dio paziente e benigno, (...) È il dio dell’attesa» (Il mio Dio) e le sue “orme” si manifestano nell’arte, nella letteratura, nelle scienze. Il rapporto è conflittuale proprio perché l’uomo ritiene Dio distaccato dalle questioni umane e nell’ultima lirica Tonelli trova una spiegazione epifanica: nelle avversità della vita, «a ciascuno è data una via / di fuga, una sorgente di luce / cui abbeverare l’animo sfinito (...) Una carezza, un sorriso, un aiuto (...) non è solo una lacrima asciugata (...) ma memento / che quaggiù non siamo mai lasciati / da soli (...) ma curati da amore attento e guidati da Dio, / secondo un disegno di segreto compimento» (Non siamo mai soli).
Stefano Tonelli diventa specchio del nostro tempo e portatore di una particolare bandiera della comunicazione. La sua poesia gioca un ruolo molto importante: è una continua confessione-analisi con il suo sicuro potere salvifico, sia psichico sia fisico. E nel contesto di una società umana dedita più alle cose materiali che a quelle dello spirito, il suo itinerario esistenziale e poetico può a ragione divenire un buon suggerimento per il recupero degli effettivi valori della vita.
Più che una prefazione, una dedica
di Manuela Pompas
Sarebbe pretestuoso chiamare queste mie righe una recensione o una prefazione, o tanto meno un’analisi stilistico-concettuale: esse sono solo una testimonianza affettuosa da parte di una persona che ricerca la Verità anche attraverso la scrittura e l’indagine del profondo. Queste parole mi escono dal cuore non pensate, bensì evocate dalle poesie di Stefano lette tutte d’un fiato per entrare in comunicazione con il suo daimon, con la sua weltanschauung (che peraltro conosco bene). Il mio è più che altro un commento, dettato dall’affetto da parte di una testimone di un’evoluzione interessante, sia sul piano personale sia letteraria. Una dedica appunto, per un amico incontrato qualche tempo fa in uno dei tanti momenti di smarrimento e di dolore, che mi ha aperto il suo cuore come ad un’amica di sempre. Per certi versi un compagno di strada che ricerca dolorosamente se stesso e il senso della vita, anche se spesso rifugge dalle esperienze dirette per nascondersi in una dimensione interiore, dove l’anima esulta o geme in un continuo soliloquio, spesso in accordo con le note delle melodie della sua musica tanto amata, e non certo per uno sguardo umano intrecciato nel mondo reale. Anche se Stefano studia e lavora, ed è quindi inserito in qualche modo nella società, è come se vivesse isolato, protetto da uno scudo invisibile che gli evita di dover entrare in contatto con una folla di visi e di corpi che non gli appartengono, alieno su questa Terra sconsolata, di cui talvolta gli sfugge il senso. In qualche modo mi ricorda Leopardi (anche se lo stile a volte rievoca altri grandi poeti), per un pessimismo e uno scoramento che sono diventati la sua veste abituale, anche se lui per la verità conosce la speranza, sa che il sole brillerà dopo la tempesta o, con una citazione meno leopardiana e più orientale, dopo il Buio c‘è sempre la Luce, o ancora, che il buio è un passaggio necessario per trovare la Luce, che tutti raggiungeremo alla fine del nostro cammino terreno. Sì, lui sa che c‘è la speranza, ma è un sapere che non lo consola, che non gli permette di conquistarla, di assaporarla, come se a lui fosse negata e per questo più amara.
In questa sua ultima opera, Stefano si cimenta in temi impegnativi, l’amore, l’amicizia, la vita, la morte, il dolore, l’annichilimento, la fede, aiutandosi anche con citazioni dotte che riflettono nella loro assertiva verità, un mondo di esperienze e meditazioni altrui. Spesso lancia parole di speranza e poi si ripiega su se stesso, si ritorce dolorante, contempla le sue ferite, le indaga, rievocando il senso di perdita, di afflizione, ma sempre lucido, consapevole che a lui non è permesso di varcare la soglia di una vita serena, normalmente o banalmente felice, come per una maledizione che si porta dalla nascita e forse da altre vite; “come sono intriso di corpo / io anima disadattata e negata alle gioie d’amore”. E a volte è come se si proibisse la serenità, la conquista di terre lontane, di altri orizzonti, forse per non doversi confrontare e scoprire che si può cambiare, che ci si può trasformare, che il bruco può veramente diventare farfalla. È come se fosse ancora rinchiuso in un bozzolo, deve accettare di partorirsi, aspettando il momento più idoneo, e forse per raggiungere lo scopo può aiutarlo proprio la poesia, che sta diventando una strada maestra, uno scopo di vita, ma anche un’autoterapia, una via di conoscenza. Quello che ha conquistato lo aiuta ad accettare di vivere fino in fondo dolore, disillusione, solitudine, senza sognare la morte “la vera livella, la vera pace” come via di fuga. “La vita” – dice – “è un male necessario”.
Certo, se la vita è illusione, se è sueño, maya, spesso è un sogno difficile, tormentato, angoscioso, da cui sembra non ci si possa svegliare mai. A volte ci appare come un labirinto oscuro, nel quale ci si perde cercando la via d’uscita. Ognuno di noi cresce inseguendo la felicità, talvolta in una direzione sbagliata, ricercandola nelle cose, nel piacere, negli amori, nella famiglia, nella carriera, nelle cose di questo mondo. E ognuno di noi rimane deluso dall’aver assaporato solo assaggi di felicità, momenti, perché anche l’amore, la famiglia, gli affetti, il successo, la ricchezza non colmano mai il vuoto dell’anima.
Camminando negli anni ci si rende conto che tutto è illusione, che nessuna conquista è per sempre, che siamo tutti attori sul palcoscenico della vita, come dice Yogananda, nei passi che Stefano riporta nella sua introduzione.
Stefano è lucido, vede la giostra della vita, ne riconosce i meccanismi, ma forse per una pigrizia innata o, più probabilmente, per una paura profonda, atavica, che lo costringe in schemi cristallizzati, non ha ancora varcato la soglia che conduce al Centro, al Tutto. Per farlo dovrà trovare la chiave che apre il chakra del cuore, imparando ad accettare se stesso e il Creato, attivando l’amore, la riconoscenza, la compassione, il perdono. Tuttavia uno spiraglio si apre nella sua ricerca del Divino: “Se è vero che ti sei / fatto uomo / e che partecipi / di natura umana e divina” – scrive mestamente – “riscuotiti dal tuo silenzio naturale / e paterno, e parlami in una / segreta teofania, attraverso / il suono della mia poesia”.
Mi sono accorta di avere analizzato l’uomo invece delle sue poesie, che sono molto belle, evocative, stilisticamente più compiute delle precedenti. Credo che se all’inizio di questo percorso le sue poesie erano esercitazioni, “prove” di scrittura per trovare uno stile personale, tentativi di esprimere le onde del grande oceano interiore, di condividere i sentimenti e le emozioni, oggi questo libro rivela una maturità di stile, una ricerca esistenziale di un uomo/poeta che, pur prigioniero di sé, dal fondo della sua caverna mostra le ombre ma anche i bagliori che gli sono stati rivelati anche a chi vuole entrare in risonanza con lui per condividere l’affannosa ricerca della Verità.
Introduzione di Stefano Tonelli
La felicità è desiderare quello che si ha.
Attribuita a Sant’Agostino, Oscar Wilde
e Ennio Flaiano
La poesia è il modo di prendere la vita per la gola.
Paul Frost
I libri di uno scrittore rivelano ciò che è a lui stesso
nascosto, essi nascono nelle zone remote, le più lontane dalla coscienza.
Marcel Proust
La poesia non è espressione della personalità ma un modo
per sfuggire dalla personalità.
Thomas Stearns Eliot
**
Dopo poco meno di due anni dalle mie Riflessioni sulla vita, presento la mia terza opera dopo una lunga e attenta elaborazione e meditazione. Ho scelto di dare due strutture portanti a questa raccolta, che ho voluto il più possibile organica e coerente in ogni sua parte, come un corpo umano.
Una partitura di poesie…
La prima inerisce la ripartizione delle poesie nelle diverse sezioni. Ho voluto disporre ogni poesia in quelle che potrebbero essere chiamate appunto “parti” o “capitoli” o “sezioni”. In realtà le ho intese come “tempi” o “movimenti” di una sinfonia o di una sonata musicale in cui i temi sono proposti, sviluppati, variati, echeggiati, allusi in una trama di rimandi ora facilmente visibile ora più nascosta. Ho, infatti, voluto quasi stendere una partitura musicale, in cui hanno trovato spazio le più diverse agogiche: allegro, largo, presto, lento, vivace, solenne. Chi mi conosce e chi ha letto i miei due libri precedenti, sa bene quanto io amo la musica, quanto essa è diventata parte integrante della mia esistenza quotidiana e dei miei orizzonti culturali. Durante l’adolescenza avrei voluto approfondire la conoscenza della teoria e della pratica musicali, anche se non ho mai considerato seriamente di diventare musicista, forse per una certa congenita innata pigrizia. Nelle mie precedenti raccolte ho dedicato alcune poesie a personaggi e a protagonisti della musica, questa volta ho preferito non farlo, con un’unica eccezione: al termine della sezione Parlando di amici, ho voluto porre una mia “composizione” su un’aria della Fille du Régiment di Donizetti (“Ah mes amis … pour mon âme…”). Mi è capitato di vederla su DVD e sono rimasto veramente incantato dall’opera in generale e dalla splendida interpretazione che ha dato del personaggio di Tonio l’ottimo tenore peruviano Juan Diego Flórez. Non immaginavo, o perlomeno, non ricordavo che tanta gioia potesse essere espressa da un’aria e da un canto così appassionato. Nessuna poesia potrà mai esprimere una gioia così intensa come quella che può esprimere un brano musicale. E questa comunicazione così diretta di stati d’animo e di sentimenti è davvero, a mio parere, una forza propria solo di quest’arte1.
... per un’autobiografia in versi…
Ho inoltre voluto che tale partitura divenisse un mio ritratto di ieri e di oggi. Ho cercato di fare in modo che, dal contenuto e dalla disposizione di tali pezzi, emergessero non soltanto le caratteristiche storico-biografiche della persona che sono stato e che sono diventato, ma soprattutto i miei pensieri, le mie riflessioni, le mie speranze e le mie disillusioni, nonché la mia spiritualità. Non so se ci sono riuscito, ma penso che tale aspirazione sia ben visibile anche al lettore meno attento, fin dal mio Autoritratto posto all’inizio della sezione “Parlando di me”, o addirittura dal “prologo” all’intera raccolta che è Consolazione, una dichiarazione del mio rapporto con la poesia e della funzione che ho affidato a quest’ultima nella mia vita. Ho “parlato” di me, dei miei amici, dell’amore, di fantasie e di ricordi, del mio rapporto con Dio, quindi di me stesso in più dimensioni. Il baricentro della mia vita e quindi della mia poetica è il rapporto col dolore, col “male di vivere”, male cui non credo mai riuscirò a sottrarmi completamente, che però attende delle risposte, che pretende una spiegazione, un significato per essere vissuto anch’esso “in pienezza” e “in fecondità”, e non alla cieca. Ho trovato la perfetta risposta a questi e tanti altri interrogativi nel pensiero della reincarnazione, argomento interessantissimo che però non può essere neppure accennato in questa introduzione, ma ben presente in alcune mie composizioni. Accanto alla mia profonda fede nella dimensione spirituale dell’anima, ho coltivato la poesia per dare un esito artistico ai miei sentimenti e ai miei pensieri, per “metterli al sole” della creatività, grazie alla quale riesco a evadere da stati d’animo talvolta non piacevoli. Anche la poesia dunque mi serve per trovare un valore alla vita, e nel contempo un sollievo alla vita quotidiana, alle sue sofferenze e alle sue sfide, con le sue luci e le sue ombre, con le sue tenebre e i suoi bagliori…
... fra tenebre e bagliori.
Affermare che la vita è un’avventura tra luci e ombre, mi sembra un’ovvietà percepibile da tutti gli esseri umani, e non solo nel senso che passiamo da momenti brutti a momenti belli per poi tornare a momenti grigi e così via. In verità, se ci pensiamo bene, il buio non può esistere senza la luce, e la luce non può essere vista che attraverso il buio. Noi viviamo in questo mondo “duale” non soltanto nella luce e nell’oscurità: yin-yang, maschio-femmina, spirito-materia, positivo-negativo, acqua-fuoco, aria-terra, caldo-freddo, inspirazione-espirazione, sono alcune delle infinite polarità che sostanziano questa nostra dimensione terrena, verso le quali noi orientiamo tutta la nostra esistenza, anelando ora all’una ora all’altra, ma partecipando di entrambe in diversa misura. Questo perché la materia esiste per manifestare lo Spirito e manifestando lo Spirito si crea altra materia in un continuum senza fine e verso l’Infinito2. Quindi tutte le polarità a cominciare da Spirito e Materia, sono i due lati di una sola medaglia, due “stati” di una sola cosa. Pertanto, a essere “tra tenebre e bagliori” non siamo solo noi esseri umani tra periodi di dolore e altri di serenità, ma tutto ciò che esiste. Ho trovato espresso questo concetto in modo chiarissimo nell’ Autobiografia di uno Yogi di Paramahansa Yogananda3: “Le antiche scritture Veda dichiarano che il mondo fisico sottosta a un’unica legge fondamentale: quella di maya, il principio della relatività e della dualità. Dio, l’Unica vita, è L’Unità Assoluta. Egli non può apparire come manifestazioni separate e multiple della Sua creazione, se non coprendosi di un velo ingannevole e irreale. Questo velo dualistico, illusorio è la maya. Molte grandi scoperte scientifiche dei tempi moderni sono valse a confermare questa semplice affermazione dei rishi4 antichi. (...) La scienza fisica, dunque, non può formulare leggi al di fuori della maya, che è il materiale e la struttura stessa della creazione. La natura stessa è maya; la scienza naturale deve per forza occuparsi della sua ineluttabile essenza“5. E poi ancora poche pagine dopo6, con chiarezza palmare, a proposito dell’intima essenza di ciò che esiste: “Gli spettatori di un cinematografo possono costatare, alzando gli occhi, che le immagini prendono forma sullo schermo per mezzo di un unico raggio di luce scevro di figure. Anche il variopinto dramma universale scaturisce dall’unica bianca luce di una Fonte cosmica. Con inconcepibile genio, Dio pone in scena un super-spettacolo per i Suoi figli umani, facendoli a un tempo attori e spettatori nel Suo teatro planetario. (...) La creazione è luce e ombra, altrimenti nessun quadro sarebbe possibile. Il bene e il male di maya devono alternativamente prevalere l’uno sull’altro. Se la gioia fosse incessante in questo mondo, l’uomo ne cercherebbe mai un altro? Senza la sofferenza, l’uomo non si curerebbe di rammentare che ha abbandonato la sua casa eterna. Il dolore è un incentivo a ricordare. L’unica via di scampo è la saggezza! La tragedia della morte è irreale; coloro che tremano dinanzi ad essa sono come l’attore ignorante che muore di paura sulla scena, quando sparano su di lui con una pistola caricata a salve“7.
Mi scuso per le lunghe citazioni, ma penso davvero che queste parole possano essere scritte a caratteri d’oro sul marmo, per ricordare a noi stessi come le sofferenze che viviamo sono illusorie per lo spirito (ma ahimè non per il corpo!), ma servono ugualmente allo spirito per comprendere ed evolversi di vita in vita. Il fine ultimo di tutta la creazione, uomo compreso, è riunirsi a Dio. Dunque, la doppia dimensione (ancora un concetto “binario”...) cui facevo riferimento all’inizio permetterebbe agevolmente altri titoli o sottotitoli, come ad esempio proprio “Tra spirito e materia”.
In conclusione…
La poesia per me è un dono da coltivare, nella continua ricerca e meditazione di un senso fecondo dell’esistere sia della mia persona sia di Tutto Quanto Esiste intorno a me. Continuerò a perfezionare questo dono, perché ogni talento va non solo portato alla luce, ma usato e valorizzato al massimo grado possibile. È per questo che ci vengono dati i talenti, come dice l’evangelista Matteo a ciascuno secondo le proprie capacità8. E ciascuno di noi è chiamato a farne tesoro attivo. Ciò vuol dire che nessuno è tenuto a fare cose al di sopra delle proprie capacità, ma anche che non c‘è nessuno che, usando la propria volontà non possa dare il suo pur piccolo contributo. E ciascuno ha un certo tempo, un tempo determinato ma non troppo breve, sufficiente, per far fruttare i propri talenti, e produrre cambiamento, innovazione, moltiplicazione del capitale iniziale e degli interessi, a vantaggio di se stesso e del mondo.
Non è sufficiente quindi “esistere” e rimanere passivi contemplando ciò che già si è o si ha. Il passaggio di consegne da parte del padrone, come dice la parabola, e il mandato affidatoci dovrebbe creare la coscienza di una responsabilità e della necessità dell’impegno che riempie il tempo fra la partenza del padrone e il suo ritorno, perché di come avremo speso i nostri talenti, dovremo renderne conto a lui, cioè a Dio. Ma anche a noi stessi al termine di ciascuna vita, per quanto saremo riusciti a fare di noi, della nostra esistenza terrena appena trascorsa e a progredire in Amore e Conoscenza9: questi ultimi sono i binari che portano direttamente a Dio cui siamo chiamati e destinati a unirci per sempre.
Note:
- Mi piace riportare qui la seguente frase del compositore Jakob Ludwig Felix Mendelssohn Bartholdy (Amburgo 3 febbraio 1809 – Lipsia 4 novembre 1847): “La musica non è troppo imprecisa per le parole, è al contrario troppo precisa”.
- Avevo definito ne Il perdono a Dio, gli esseri umani “carnosi pensieri” di Dio (a pagina 81 delle Riflessioni sulla vita – Edizioni Montedit – Collana Le schegge d’oro – i libri dei premi – maggio 2007 – 14×20,5 – pp. 88 – Euro 9,00 – ISBN 978-88-6037-366-3).
- Paramhansa Yogananda Swami, Autobiografia di uno Yogi, Casa Editrice Astrolabio Ubaldini Roma – terza edizione riveduta 1971 – pp. 448 – ISBN: 8834002954. Yogananda nato Mukunda Lal Ghosh (Gorakhpur – India settentrionale, 5 gennaio 1893 – Los Angeles, 7 marzo 1952), è stato un filosofo e mistico indiano. Visse la maggior parte della sua vita negli Stati Uniti d’America e divenne famoso per aver integrato le due grandi tradizioni religiose-spirituali del mondo, quella orientale e quella occidentale. Morì coscientemente nel 1952 a Los Angeles, alla fine di una conferenza. La sua Autobiografia di uno Yogi è una delle opere sulla filosofia indiana più famose ed apprezzate in occidente, divenuto un vero e proprio best-seller spirituale. Pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1946, questo libro è stato pubblicato in tutto il mondo e tradotto in numerose lingue.
- È un saggio e/o un profeta che “percepisce” dall’essere supremo Brahman gli inni dei Veda, mentre si trova in meditazione profonda. Un rishi può essere considerato anche una combinazione di identità come un patriarca, un sacerdote, un precettore, un autore di inni vedici, un saggio, un santo, un asceta, un profeta e un eremita, tutto in un’unica persona
- Autobiografia di uno Yogi, pag. 253.
- Autobiografia di uno Yogi, pag. 259 e 260.
- L’idea del mondo come “illusione” non è estranea neppure alla cultura occidentale: gli antichi Egizi parlavano del velo di Iside, i filosofi presocratici mettevano in dubbio l’umana percezione della realtà colta attraverso i sensi. Platone, poi, nel “mito della caverna” ( Repubblica, Libro VII, 514 b – 520 a ) spiegò che gli uomini non vedono che “ombre”: fino a che ritengono che tali ombre siano l’autentica realtà essi rimangono vittime dell’illusione, solo dopo avere abbandonato la caverna è possibile scoprire la “vera realtà”. Vedi però anche Montale di Xenia II, 5 (in Satura, 1962/70) che nella famosissima Ho sceso dandoti il braccio, almeno un milione di scale, allude ai versi 6 e 7, con il suo tipico sentire pessimista disincantato e scettico “a chi crede / che la realtà sia quella che si vede”.
- San Matteo Evangelista, Capitolo XXV, versetto 15. Nella versione greca originale si dice che il padrone diede ûkastw kata thn idian dunamin. La parola greca dunamij significa potenza, potere, possibilità, attitudine, abilità. La parola talento (in greco to talanton) indicava originariamente una misura di peso, poi in seguito una moneta legale di diverso valore secondo gli stati e i tempi.
- Il concetto della Conoscenza (Luce) e dell’Amore come uniche coordinate del “cielo” e della dimensione ultraterrena è ben presente anche nella Divina Commedia. Beatrice ( Paradiso Canto XXVII verso 112 ) spiega a Dante che “Luce e amor d’un cerchio lui comprende”, cioè “la luce intellettuale piena d’amore dell’Empireo contiene in sé il Primo Mobile”. Vedi anche, poco diversamente, in Paradiso Canto XXVIII versi 54-55: “in questo miro e angelico templo / che solo amore e luce ha per confine” ove il cielo è definito un tempio che ha per confine l’Empireo fatto di amore e luce.
Tra tenebre e bagliori
L’uomo che ha accettato con tutto il suo cuore l’oscurità, scopre che essa è diventata Luce. E chi accoglie il dolore a braccia aperte scopre che per lui esiste solo felicità.
Rajneesh Chandra Mohan Jain – Osho
E quando l’ombra dilegua e se ne va, la luce che si accende diventa ombra per altra luce. E così la vostra libertà, quando spezza le sue catene, diventa essa stessa catena di una più grande libertà.
Kahalil Gibran
Consolazione
Quando mi sento morir dentro
e si strozza persino il respiro e la voce
e le lacrime non trovano la loro via,
mi consolo con questi giri di parole
talvolta vane, sognatrici o dolorose,
ciò che l’animo mio dalla cupa pozza
mi dona pur sotto la grave mole
di pensieri ritorti e oscuri, e tuttavia
bramosi anche loro di un po’ di sole.
A loro e a me ne viene un po’ di luce.
È nulla per chi vive di viva vita,
è tutto per chi ogni giorno muore di truce
ferita, condannato a una perenne salita.
Autoritratto
Sono nato il diciannove al terzo
mese, domenica ore quattordici e cinque
anno millenovecentrosettandue,
cittadino e residente milanese,
verso sud est come zona.
Immerso con la corona del mio nome
in questa strana e nuova avventura
dell’esistenza umana, come in clausura
ho fatto conoscenza della mia persona:
anima cortese onesta buona fedele,
pigra avara, a volte un po’ balzana e contorta,
solitaria riflessiva nei suoi pensieri assorta.
Non coraggiosa, anzi attenta e sempre volta
al porto sicuro e non a incerte strade
ovunque disperse tra ampie contrade.
Ho visto la vita con occhi profondi color miele,
l’ho meditata con fronte alta e spaziosa,
l’ho percorsa col mio metro e settanta d’altezza
di buone proporzioni e discreta bellezza:
non sempre è stata una delizia, e giocoforza
ho più volte toccato il fondo con strazio
e ferite sanguinanti e dolorose, pagandone il dazio.
Altre saranno in futuro, anche se una certa scorza
ormai s’è fatta. Ma io ho imparato da autodidatta
ad attendere il buono e il cattivo con tenace forza,
con labbra talora prive dell’incanto di un sorriso,
con viso spesso solcato dal pianto ma senza disfatta.
All’ombra della sfinge
All’ombra di una sfinge
usavo stare da bambino:
lei mi sussurrava storie segrete
note solo all’ingegnoso popolo
che l’aveva costruita,
e poi rimaste sotto veli
e veli di sabbia calda e secca.
All’ombra della sfinge
un tempo brulicava
la vita di mille e mille
scaltri abitatori dei dintorni,
con un lavoro per nulla divertente:
cuocevano mattoni nei forni
in perpetuo fermento costruttivo,
spingevano pietre per giorni
sotto il maglio di un sole sempre estivo.
Così nascevano vivevano morivano,
consumando l’esistenza amaramente
per innalzare al cielo lo sguardo della sfinge
con le zampe da leone e il sorriso riflessivo.
Ora grava solo il caldo ampio e silente
su tutto quello che un tempo fu di vivo.
La mente spesso mi dipinge
terra ocra, un cielo bianco
e i racconti di pietra
che ascoltavo da bambino.
Adesso vorrei anch’io parlare pietre,
e vedere con occhi senza ciglia,
avere la serena e severa saggezza,
e una vaga e segreta meraviglia,
per la stranezza del deserto muto
che si è fatto all’ombra della sfinge.
Il male necessario
La morte si sconta vivendo
Giuseppe Ungaretti, Sono una creatura.
La vita è un male necessario, per natura ereditario,
cui ci si affeziona come a una sorda malattia,
tenace e inguaribile che conduce a morte certa.
Impossibile uscirne vivi, e senza la scoperta
almeno di una mite, dolce malinconia.
Ineffabile bellezza
Della sua bellezza non si può dire.
Vivificatrice di sensi stanchi e di pigro sangue,
incanto d’occhi e di luce rosa per lo spirito che langue,
perfette proporzioni amate da un’anima esangue…
Con le parole non si potrebbe che mentire.
Richiesta di colloquio
Tu che sei in Tutto
Tu che sei Tutto
se è vero che ti sei
fatto uomo
e che partecipi
di natura umana e divina
e che la tua anima si effonde
nell’umano animale vegetale minerale
riscuotiti dal tuo silenzio naturale
e paterno, e parlami in una
segreta teofania, attraverso
il suono della mia poesia.
Non siamo mai soli
Pur nel deserto di vite abbandonate
da genitori, da amici, da amanti
e persino dalla cosiddetta fortuna,
laddove vediamo solamente una
strada senza uscita, e davanti
solo un muro dalle porte serrate
– è difficile, anzi temerario crederlo
e sperarlo come in folle fantasia –
a ciascuno è data una via
di fuga, una sorgente di luce
cui abbeverare l’animo sfinito,
avvilito e piagato da offesa truce.
Alla nostra vista ottusa e offuscata
è arduo e laborioso scorgerla.
Una carezza, un sorriso, un aiuto
al nostro duolo talora cieco e muto
non è solo una lacrima asciugata
sul volto di chi è caduto, ma memento
che quaggiù non siamo mai lasciati
da soli nelle giornate oscure di tormento,
ma curati da amore attento, e guidati da Dio,
secondo un disegno di segreto compimento.
Contatore visite dal 12-03-2009: 3189. |
|
|