PENSIERO – VOLPE
Immagino la foresta in questo momento di mezzanotte.
C‘è qualcos’atro di vivo
Oltre la solitudine dell’orologio
E questa pagina bianca sulla quale scorrono le mie dita.
Non vedo stelle dalla finestra:
Qualcosa di più vicino
Benché più profondo nel buio
Sta invadendo la solitudine:
Freddo, delicato come la scura neve,
Un naso di volpe sfiora un ramo, una foglia;
Due occhi servono un movimento, che ora
E ancora ora, e ora, e ora
Lascia nitide orme sulla neve
Tra gli alberi e cauta avanza
Tra ceppi e in cavità la claudicante ombra
Di un corpo tanto audace da attraversare
Radure, un occhio,
Un verde che si dilata e sprofonda,
Brillante, assorto,
Persegue i propri fini
Finché, con improvviso acuto dolore caldo di volpe
Entra nel buco nero del cranio.
La finestra priva di stelle; l’orologio ticchetta,
La pagina è scritta.
IL CANTO
Non aveva bisogno dell’aria
O del cielo distante
Il canto
Non aveva bisogno dell’erta donde echeggiò
Non aveva bisogno delle foglie
Tra cui palpitò
Non aveva bisogno delle pietre indifferenti
che tuttavia turbò
Non aveva bisogno dell’acqua
Il canto non aveva bisogno della sua stessa bocca
Era incurante della sua stessa gola
Dei polmoni e delle vene
Da cui sgorgava
Il canto fatto di gioia
Cercava fino a sembrare un lamento
Quello che non esisteva
Disteso sul sepolcro vuoto
Di quello che non era ancora nato
LOTTA
Sapevamo che avrebbe partorito
E infatti era lì al suolo, subito dopo l’alba.
Appartata, dietro la trincea di una siepe, in un angolo ruvido e basso.
Andarle incontro era andare incontro al pericolo.
Sorpresa dal suo primo vitello la giovenca pezzata dalle piccole ossa
Era in difficoltà. Alzata la testa, si protese verso di noi con uno sguardo
Selvaggio, impennato. Di nuovo si riabbattè. Ed ecco il vitello,
Enorme, leonino, la faccia bianca, intrappolato alla vita
della violetta cintura materna,
Le lunghe zampe anteriori piegate in un galoppo non ancora ereditato,
La testa volta in alto e all’indietro alla ricerca della
mammella non ancora comparsa, il naso rosso e sgraffiato
Da un ceppo di giunchi smangiucchiati,
Il pelo asciutto come se fosse rimasto
Nato a metà per ore – come forse gli era successo
PECORE
Le madri sono tornate
dalla tosatura e dietro la siepe
il dolore delle pecore è come un campo di battaglia
di sera, a battaglia finita
quando comincia il freddo e cade la brina
e le donne si muovono chine con l’acqua.
MADRI E FIGLI AL COPERTO
Fuori le quercie semi inghiottite
e contorte da un bianco incendio di neve già dalla collina
bruciano in scaglie di carbonella
e cieche ruggiscono e oscillano,
inutile autodifesa dalle cime.
NARCISI
I Narcisi scuotono le loro stelle
al vento verdedorato dell’ultimo bagliore.
La loro felicità non ha peso.
La loro letizia è spirito.
Anche stanotte avrà stelle precarie
sul monte della Luna
e brina d’Aprile.
I Narcisi sono intoccabili
nel fruscio di un film muto
che accelera un ballo
e risa di bambini
alla fine della Grande Guerra.
Le loro faccine sono schiacciate
sotto i grandi e molli fiocchi di un pallido nastro.
Ma questa è adesso la felicità
essere grandi – magre ragazze alla moda,
i capelli all’indietro, le sottili labbra dischiuse, spinte
dentro un freddo sole, le guance splendenti,
delicate come ghiaccio acceso.
Non potranno soffrire.
(Anche nel solenne e gelido
strazio dell’altrui lutto,
saranno al sicuro –
bulbi nella terra
sotto le ciocche della ghirlanda).
Ghirlanda di stelle.
Luci-spiriti nell’orto.
ROVI
L’aria intensa, il giorno intero
vortica dei richiami delle taccole. La stirpe neonata
delle taccole è iniziata
alla taccolità – quella complicata
corte di convenzioni
e precedenze, di sciovinismo e leggi.
Corte che è quasi una prigione – con sbarre
di gridi e di segnali. Carcerieri
sono tutte le altre taccole. Aprendomi una via
tra i grovigli dei rovi
ho pensato di nuovo: mi sentono?
I rovi sono un tale successo, le loro difese
così elaborate,
la loro estensione così internazionale, sono svegli?
Certo un nimbo di dolore e di piacere
siede sulla loro nuda corona,
la loro offerta sessuale. Certo non sono solo insensibili,
un vano andare a tentoni. E poi perché no?
Non è lo stesso per le cellule del mio sangue?
Le mie cellule cerebrali forse temono o sentono
il bisturi o l’incidente?
Anch’esse incoronano una pianta
di straordinaria insensibilità. E le taccole
si danno segretamente da fare per essere taccole
come se fossero semi nella terra.
L’intera claque è un’ottenebrata religione
intorno alla sintassi e al vocabolario divini
di una muta cellula, che non sa chi siamo
e neppure che siamo qui,
inimminenti come un qualsiasi fiore di rovo.
Ted Hughes