Tristano Tamaro - periferie del cuore
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia 14x20,5 - pp. 48 - Euro 8,00 ISBN 978-88-6587-6862 Clicca qui per acquistare questo libro Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori per il conseguimento del 2° posto nel concorso letterario Olympia Montegrotto Terme 2015 In copertina: fotografia dell’autore Con lo sguardo rivolto al cielo: di Gabriella Valera Una fredda atmosfera lunare avvolge il lettore che entra, forse ricordando la luce delle stelle che tanto si irradiava nei versi dei precedenti libri di Tristano Tamaro, in questo suo nuovo libro. Poi ci si addentra nel libro e ancora le atmosfere ci avvolgono: con luci sommesse (come voci che ci parlano senza rumore): i lampioni rivestono il mondo d’argento mentre motivi jazz si impigliano su luci di periferia (Periferie del cuore); Sono queste le atmosfere delle “periferie del cuore”, che non a caso danno titolo al libro, dove la luce entra discreta per non disturbare malinconie e dolcezze, ricordi e persino speranze. Da questo tono minore si dipana la poesia del libro, ricco di riflessioni, di immagini ardite della fantasia (a cui ci ha reso avvezzi Tristano Tamaro con la sua scrittura) e, cosa forse un po’ nuova, di quiete. Da queste periferie, soprattutto, si volge lo sguardo al cielo. *** Si potrebbe quasi dire che il cielo è riferimento costante di questi versi; lo avvertiamo silenzioso, impari e ostile, anche là dove non ne troviamo esplicita menzione. Forse perché il cielo è la grande metafora di un dialogo impossibile, di qualcosa o qualcuno a cui si rivolgono tutte le domande, da cui si vorrebbero le risposte, da cui si pretendono le risposte che non vengono ad acquietare “l’inutile follia dei perché” (Naufragi). Troppo il non sapere che ci fa pietosi ma impotenti: Ora il tempo si china / per disegnare la grazia / di quei passi / e il giovane profumo/ del suo respiro. / Fra l’immenso e noi il vuoto e il rimpianto della lontananza; non abbiamo “nomi” da prenunziare; l’umile realtà che ci circonda e le persone che vorremmo soltanto amare ci sono sottratti rimanendo avvolti in una rete fitta di azioni e accadimenti nel “puntuale silenzio degli dei”: “tutto è un mistero intriso di lacrime/ disteso sotto il cielo che disegna/ un’incontenibile nostalgia” (Il bambino, la fame e la morte). *** Verso dove il desiderio del ritorno? Un approdo o una favola? “Non dovrai piangere bambina mia”, scrive il poeta a lei che ne accoglierà, gentile, la morte. “Accendi invece, ti prego, / un attimo di luce / sul mio ricordo” (Per te) Solo un attimo egli chiede perché la luce non sia troppa e ancora una volta non invada… “E poi soffialo via, / come si fa su una candela / alle porte del mattino. / Ti chinerai/ a seguire le mie briciole / fino a una spiaggia / dove non ci sono più approdi / per la tristezza” (Per te). Tempo nuovo, soglia da oltrepassare, riva dove il respiro delle onde annuncia il movimento perpetuo dell’essere. Queste parole ci raccontano un altro percorso possibile: il ritorno verso la luce di una favola sanerebbe la ferita oscena che morte e male infliggono agli esseri umani. Luoghi e tempi e voci si incantano gli uni gli altri. Di fronte alla scimitarra della luna stanno “fantasmi e risate / di biciclette blu e dentini bianchi” (Tu per sempre); il mondo “rotola immobile / su spazi e tempi ripetuti” (Periferie del cuore), eppure il ricordo di un giorno, di un anno (Quattordici), sembra svelare qualcosa di nuovo, dallo strazio della perdita, quasi un soprassalto, la percezione di un cammino che deve essere battuto con la forza della consapevolezza raggiunta: “non ho più / una strada da percorrere, / una strada di sassi o nebbia, / una strada qualunque” (Quattordici). Ma occorre andare. *** E rimane il sogno: “Vieni qua papà / c’è un albero bellissimo”[…], Chi trova l’albero più bello / è il gioco[…] sento il sole crescere / nel silenzio dell’alba. / Mio figlio deve essere qui, / più in là … forse… Seduto sul marciapiedi / con la testa tra le mani / lascio che la pioggia / mi laceri l’anima…” (Bosco d’incanto) È poco forse un sogno, ma nell’altalenare dei sentimenti, fra disperazione e dolcezza, talvolta accade la magia di “biciclette appese a palloncini” quando, come la lampada di Aladino dell’antica favola, un arlecchino, ritrovato per caso, viene strofinato per formulare un desiderio (Un burattino arlecchino). Qual è davvero il rapporto fra i sogni che aiutano a trovare gli attimi della commozione e la memoria vivida di luoghi, di persone, di un agire consueto e bambino e quelli di cui non si sa ancora, sogni che appena si danno nel cuore come immaginazione e speranza? Il sogno riscatta, illude, impegna? La vita si salva stendendo una mano verso l’alto, scrive il poeta Anche ora, appeso al pennone / della mia vita in perenne tempesta / quando i nodi delle speranze/ cadono sul vento/ per incontrare il mare, / distendo una mano a banco / e faccio volare i miei sogni. / Perché i sogni sono come le stelle, / basta alzare gli occhi / e sono lì ad aspettare / che tu li prenda per mano (Il banco). Alzando gli occhi può capitare di vedere un angelo volare (Un lampo bianco). E il cielo può sorprendere se dal cuore della vita (dall’umiltà delle sue “periferie”: un fiore, un gesto o una carezza come eterna armonia del divenire) insegnano a guardarlo (La tua mano). E sarà sempre il cielo con il “suo lungo ricamo di luci” a indicare “nuovi sentieri” (Una favola). Per questo il destino diventa complice nella pienezza goduta di una notte di stelle. *** Il pensiero di Tristano Tamaro non è semplice, intessuto di riflessione e di sentimento. Il suo modo di sentire la vita, di cui ha sperimentato durezza e sfide, si risolve in una continua riflessione sul destino, che sfuma i suoi versi. “Non so dove andare, ma devo farlo”, scrive in “Andare”, destino non diverso da quello di chi senza sapere perché è sospinto dalla storia verso “luoghi” ignoti: l’esule d’Istria (Un profugo d’Istria), gli uomini “imperfetti” (Parigi, novembre 13) che l’ansia (o la follia) di trovare verità perdute travolge i fratelli di trincea del 1917 (1917 Trincea), costretti “a nuotare nello stesso respiro”; ed ogni soldato, votato coi suoi compagni alla morte: Ai margini della pianura, / aspettavamo in silenzio / il levarsi prossimo dell’alba.[…] La gloria era un inganno […] Ma non c’era scampo alla lotta./ Alzai gli occhi per cercare il cielo, / e mi chiesi, ghignando piano, / se avrei rivisto / il concerto delle stelle (Ouverture). Non c’è scampo alla morte, che sta nell’ordine naturale delle cose, non c’è scampo a questa morte che sta nell’ordine dell’umana paradossale follia di raggiungere forse la perfezione del potere, come vollero i martiri assassini di Parigi novembre 13. Il cielo a cui si leva lo sguardo resta completamente muto, il “signore di sopra” (corsivo mio) non interviene quando un’unica strada percorribile sembra condurre immancabilmente alla sconfitta (L’unica strada) e i pensieri sul destino, sul cielo che sta sopra noi, su dio si intrecciano e si illuminano vicendevolmente. “Un vagabondo”: Anche la notte è in attesa […] Non conosco la destinazione / ma arriverò alla fine della corsa/ per quell’avventura, / che concede sempre un sorriso. / Sopra me viaggia il cielo intero/ e mi scava dentro una storia / che mi libera e mi crocefigge / in un mondo indifferente / che frantuma i pensieri. [ … ] mi alzo ora con le braccia aperte, / per dissetarmi di vento. (tondo mio) Nel contrappunto fra cielo e mondo si delinea, nella poesia di Tristano Tamaro, un particolare pensiero di dio. *** Una scimitarra fredda di luna / taglia il cielo su un mare di pietra / Siamo seduti sul solito scoglio, / a raccontarci di fantasmi e risate / di biciclette blu e dentini bianchi, / facendo il verso a un destino / che non ci voleva bene. / Ma abbiamo il nostro pianeta, / di ricordi e occasioni mancate / di discorsi interrotti e salti di vento/ che abbiamo negato anche a Dio (Tu per sempre). È la prima poesia del libro, cui abbiamo fatto cenno più volte. Ma è soprattutto l’incipit, la ferita (che sopra ho definito “oscena”), lo “scandalo” che spezza ogni possibile comunicazione fra l’uomo e Dio. Il divino sembra intridere la santità della notte: Anime stanche come il mondo / registrano la loro canzone: / Fuori, la notte piove sulla città, / ogni finestra è un pianeta / di un altro universo, di un altro dio (Jazz). Un dio diverso da quelle divinità puntualmente assenti che l’uomo ha inventato “per riparo alla sofferenza e alla morte”, “creatori di un feroce universo / dove anche le stelle divorano le stelle”; un divino che sta nella natura e nell’uomo, nelle periferie delle imperfezioni e delle piccole cose: Nulla esiste che non sia divino, / niente ha più anima / d’un frammento di pietra, / sotto il mobile cielo / d’un giovane torrente. / Gli uomini / padroni degli dei, / hanno solo la loro dignità, / senza colpe e perdoni, / stretti al loro coraggio / e alle piccole verità / che hanno conquistato lottando, / senza le stampelle inventate / dalla paura del buio (I padroni degli dei). *** Occorrerebbe ora dire di tutta l’intensità emotiva che passa attraverso le poesie di questa raccolta di Tristano Tamaro: sarebbe tuttavia impossibile e non è questo il compito di un’introduzione la quale piuttosto svela qualche nesso ulteriore fra pensiero e pathos potenziando la fruizione dei testi, che lasciano spesso incantati per la profondità delle note echeggianti da una pagina all’altra (si troverà leggendo quante volte la musica ritorni quasi a fare da sfondo alle poesie) e della purezza con cui la vita viene messa a nudo con un immenso canto. Ho mani colme di stelle // […] Lancio il destino nella fontana / per ritrovarlo alla fine della storia / […]. Ho mani colme di stelle / e le guardo vibrare con affetto, / in attesa d’altri destini. / Ho mani colme di stelle // e non le chiuderò più; / le soffierò piano sul vento / perché si vesta di me (Ho mani colme di stelle). Il destino diventa amico, atteso attraverso la leggerezza dell’accettazione e del dono, con lo sguardo sempre rivolto al cielo. Gabriella Valera Gruber Note sulla professoressa Gabriella Valera Gruber Docente presso l’Università degli Studi di Trieste dove insegna nel Dipartimento di Studi Umanistici Metologia e Storia della Storiografia e Storia Critica della Storiografia. periferie del cuoreAlla mia Barbara
Una scimitarra fredda di luna
Una tromba ammaccata
Non so dove andare, ma devo farlo;
Il mare m’ha spedito la sua cartolina A Nordest di quest’angolo di mondo
Per gambe ho due bastoni.
Il fiume faceva una virgola
Ho ritagliato il tempo vissuto
Nel candore della neve E io mi metto seduto
Un piccolo drago di paglia
La bimba di Hiroshima Io non saprò mai [continua] Contatore visite dal 15-06-2016: 2714. |
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