La ragazza del valzer e altre storie

di

Vittorio Martucci


Vittorio Martucci - La ragazza del valzer e altre storie
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 102 - Euro 11,00
ISBN 978-88-6587-9306

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In copertina «Winter» ©Luka – stock.adobe.com


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è Segnalata nel concorso letterario Jacques Prévert 2018


Presentazione

Vittorio Martucci, con la raccolta di racconti “La ragazza del valzer e altre storie”, mette in luce la grande capacità di fissare gli stati d’animo dei personaggi nelle varie narrazioni, che inserisce in perfette ambientazioni ed atmosfere evocative.
La scrittura risulta sempre efficace nel rendere le intenzioni narrative e viene alimentata dalla spiccata creatività nel ricercare storie che risultino coinvolgenti e profondamente connotate da forte sensibilità, tra le quali domina lo struggente racconto “La ragazza del valzer”.
Il recupero memoriale della triste storia di Minna e di suo padre, famoso violoncellista che vede finire la sua carriera a causa di una malattia alle mani, s’intreccia con la vicenda di Friedrich, un professore di filologia, che decide di scrivere il diario sulla “dolce stagione della sua vita”, illuminata dall’incontro con la giovane violoncellista Minna e dalla nascita d’un amore profondo, purtroppo destinato a finire presto perché la ragazza è gravemente malata.
Il dono dello spartito del famoso valzer nr° 2, composto dal padre di Minna, sarà il simbolo del loro amore, capace di superare lo spazio ed il tempo.
Vittorio Martucci, inoltre, dimostra la sua poliedricità narrativa grazie anche ad alcuni racconti che presentano un tono ironico e divertente.

Massimo Barile presidente del premio letterario Jacques Prévert sezione narrativa


La ragazza del valzer e altre storie


La ragazza del valzer

Prologo

Intorno silenzio e il grigio spento del cielo d’ottobre. Si approssima il tempo delle brume. In basso scorrono fragorose le acque dell’Aser, che le recenti piogge hanno ingrossato, e avvolgono in tumulto il masso roccioso che sporge in mezzo al letto del fiume: “lo scoglio delle fate”, secondo la credenza popolare. L’uomo si protende sul limite della sponda e guarda in giù verso la corrente che corre fra gorghi e schiume. La corrente attrae. Basterebbe poco: un passo in avanti… e gettarsi verso il nulla per sempre.
Ma la corrente ha anche un suono, uno strepito sempre uguale che rompe quel silenzio e sembra composto di mille altri suoni, e di mille voci, di voci che richiamano antichi ricordi.
La vecchia casa paterna, dove Eric ha vissuto i suoi primi vent’anni tra il caldo affetto dei genitori e dei fratelli più grandi. La casa dove poesia, arte, musica erano le festanti sorelle di tutti. La casa dove sono risuonate le prime note dello strumento di cui a poco a poco ha appreso i segreti e da cui ha tratto le sue scintillanti melodie. L’addio a quella casa in cerca dell’avventura e della gloria. Erano seguiti tempi di ristrettezze, di affanni, ma anche i momenti dell’amore e delle gioie per una ritrovata dimora e una nuova famiglia. Poi, a poco a poco, anche i giorni della notorietà e di una breve fama.
L’acqua gorgoglia, schiuma, richiama; sembra ripetere incalzante: «Fa’ presto.»
Dopo una fuggevole felicità, il maligno manifestarsi di una sorte avversa. L’appesantirsi delle mani, il loro anchilosato stringersi intorno al violoncello in una presa non più agile, fin quasi a rimanere a volte quasi immobili, prive di vita. La fine della carriera.
E poi la fine di ogni cosa, con la morte della sua amata sposa, suo bene, suo conforto, suo tutto.
Il piede si mantiene a fatica sull’erba melmosa. L’acqua scorre, scroscia con fragore, è un liquido nastro ipnotico.
«Papà, vieni dentro, qui fa freddo, ti può far male.»
Male? È già dappertutto il male; qui forse c’è l’unico, l’ultimo bene.
Eric si volta e osserva con infinito affetto la pallida ragazzetta dai profondi occhi neri e dalla figurina elegante che è arrivata dalla piccola casa là in alto, nascosta in parte dagli alberi: «Sì, cara, non aver paura, tra poco torno, lasciami stare ancora qualche minuto, vengo presto. Va’ a terminare i tuoi esercizi, che dopo voglio ascoltarti; guai a te se fai qualche errore, però. Poi, se sarai stata brava, chiederemo alla signora Klugel di preparare la torta per il tuo compleanno. Potrai invitare Lise, se vuoi, e fare un po’ di musica con lei.» Sorride blandamente.
È di nuovo solo, ma sa che non potrà godere neppure della libertà di finirla lì, a quel modo: ha ancora un dovere da assolvere; la sua vita non appartiene interamente a lui. Deve ancora dedicarla alla piccola fata.
Intorno silenzio; ma ora si leva la voce del vento ed improvviso risuona il richiamo di un uccello inghiottito in quel paesaggio malinconico. Il soffio del vento, quasi la voce di un’orchestra di archi tristi. La voce del piccolo essere sperduto nel nulla: sol, do, sol; una semicroma, un’altra semicroma, una croma. L’orecchio del musicista è il primo a riscuotersi, a provare di nuovo qualche interesse. Anche il rumore dell’acqua sembra ora tramutarsi in un motivo in tre quarti che scorre vibrante e rapido. Eric si è ridestato e parla al nulla, ma lo fa con voce più decisa, in cui non è ancora spenta del tutto l’aspirazione ad esistere: «Piccola mia, ora torno a farti un regalo, un bellissimo dono di note, tutto per te, per te.»
Si volge verso la casa, si affretta, ritorna correndo.


Viene qui pubblicato, con il consenso degli eredi, un breve scritto del Professore Friedrich von Liliental, recentemente scomparso, che, con fondamentali lavori, tutti editi dalla nostra Casa, ha tanto illustrato la scienza filologica. Ci ha incoraggiato nella nostra iniziativa il carattere autobiografico di tali note; abbiamo infatti convenuto che esse, pur nei limiti di una rievocazione sentimentale, potessero gettare nuova luce su alcuni aspetti poco noti della giovinezza dell’esimio studioso. Le pagine autografe erano contenute sciolte, insieme a qualche altro documento, in una cartelletta di cartoncino grigio, ritrovata fra altri scritti. Esse erano prive di titolo e quello adottato per questa edizione è frutto di una nostra scelta. Molto chiara è risultata la stesura e poche le correzioni presenti. Da parte nostra, abbiamo solo provveduto ad uniformare qua e là l’ortografia e a correggere in qualche raro caso la punteggiatura.

Il Curatore


1.

Ho sognato, quarant’anni dopo, il Caffè della Pace: era triste e non vi facevano musica. Dopo di allora non lo avevo più rivisto. Ecco perché questa mattina mi sono deciso, prima che me ne manchino la mente e la mano, a fissare sulla carta gli avvenimenti, inesprimibilmente dolci e tragicamente dolorosi, che da quel luogo presero origine; e soprattutto a rievocare il ritratto di colei che di quegli avvenimenti fu protagonista. In quei lontanissimi giorni ella mi scrisse esortandomi a serbarne un ricordo sereno. Mi sforzerò perciò di far trasparire da queste pagine almeno un po’ della felicità di quella dolce stagione della mia vita. Ma la radiosa anima di lei saprà certo perdonarmi se non potrò scegliere epilogo diverso da quello che allora il rovinoso precipitare degli eventi preparò per noi.

Mi ero recato nella cittadina di Bergensbad su consiglio dell’ottimo professor Hans Ringermass, mio anziano collega, che mi aveva decantato non so quali portentose acque, oltremodo salutari per il fegato o i reni, o non so che altro. Ma io avevo accettato la proposta del giudizioso amico più che altro per prendere riposo da una stagione invernale particolarmente defatigante. Ci aveva dato un gran da fare la ricostruzione del Codice Passigli, noto come 432b, e volevo anche distrarmi dopo il burrascoso finale della mia relazione con Hilde; ma di questo non intendo parlare qui.
Dunque ero lì da una decina di giorni, occupato fra deglutizioni di enormi boccali idrogenossigenati e calme passeggiate sotto gli interminabili viali di tigli. Avevo cercato di vincere la tranquilla noia del luogo assistendo a qualche dramma di una compagnia che si esibiva nel grazioso teatrino delle terme: gruppo volenteroso e non privo di affascinanti presenze femminili, che non sarebbe stato difficile includere in qualche divertente seratina. Ma quegli spettacoli e quei diversivi erano pur essi impari nella lotta contro il placido tedio prodotto dalle acque. Del pari mi cimentavo in sonnacchiose partite a scacchi con qualche altro ospite, fra cui il maggiore Gustav Messing, che diceva di trovarsi colà perché convalescente da un’affezione intestinale e che non mancava di fornirmene profluviosi ragguagli.
Avevo anche assunto per abitudine il recarmi, dopo la cura del mattino e prima del pranzo all’Hotel du Jardin, presso il Caffè della Pace, reputato luogo d’incontro per tutta la bella gente che si trovava a frequentare le calme attrattive di Bergensbad. Oltre all’ampia sala interna che procuravano a decorare stucchi, specchi e altri orpelli di immaginosa fattura, il caffè godeva della presenza di un delizioso ed appartato giardinetto, reso ombroso da alcuni ippocastani ed allietato da un’orchestrina d’archi che si esibiva in tenui brani di intrattenimento, suonati con gusto e con la giusta deferenza nei confronti del pubblico, spesso distratto e non sempre silenzioso.
Quella mattina ero giunto al caffè con leggero anticipo ed avevo preso posto come al solito ad un tavolino esterno, non lontano dalla pedana dei maestri suonatori. Avevo ordinato una granatina di lamponi che avevo osato far ricoprire col biancore di una panna particolarmente squisita, vero vanto del maestro pasticciere. Ascoltavo distrattamente i motivetti eseguiti dall’orchestrina, ma il facile dipanarsi delle polche e delle mazurche era niente affatto fastidioso ed induceva anzi ad un dolce benessere, accresciuto dalla calma dell’ora tiepida e profumata.
Per qualche istante l’orchestra tacque e, levando lo sguardo immerso nelle delizie della granatina, avevo quasi creduto che si fosse silenziosamente allontanata, quando all’improvviso la musica riprese. Riprese nel più inatteso dei modi: con un valzer eseguito con maggior piglio, quasi con rinnovata e coraggiosa energia. Era qualcosa di assolutamente diverso da quel che era stato suonato fino a quel momento e quel che mi meravigliò alquanto fu il notare che mi era del tutto sconosciuto. Avevo qualche discreta conoscenza di musica, riuscivo anche ad eseguire non disprezzabilmente numerosi brani al pianoforte e sottoscrivevo un paio di abbonamenti presso le istituzioni musicali della capitale. Ma quel pezzo rimaneva inaccessibile alla mia memoria, per quanti sforzi facessi. Poteva forse assomigliare, per una dolce, accorata malinconia, a certi passaggi del famoso idillio di Goniatowskij; ma trapassava poi in una melodia più capricciosa e ondulante che lo imparentava piuttosto con qualche composizione di Maleneau o con qualche ardita divagazione dell’ultimo Krobelerg. «Un nuovo autore» conclusi, pronto a ricercare con lo sguardo il cameriere e inviarlo a raccogliere informazioni.
Fu solo allora che feci un’altra sorprendente scoperta. Tra gli esecutori, sedeva al violoncello una giovane donna, che ero certo di vedere per la prima volta. La mia meraviglia era al colmo, perché ero convinto che non fosse presente al mio arrivo: probabilmente era subentrata durante la pausa dei colleghi, nel momento in cui mi ero distratto inseguendo il boscoso aroma dei lamponi.
La musica proseguì con crescente vigoria e il valzer terminò con un’ultima impennata, alla quale partecipò di slancio l’arcata profonda ed energica della nuova esecutrice; ma fin dal momento in cui l’avevo scorta, non mi era stato più possibile toglierle gli occhi di dosso. Ne ero io stesso sorpreso ed anche un po’ a disagio, perché francamente non sono mai stato un importuno molestatore di bellezze femminili; non richiesto, non amo impormi con la consueta protervia che riconosco al genere maschile. Ma in quel caso era diverso: avrei voluto allontanare lo sguardo e, perfino alzarmi ed andar via, ma mi era assolutamente impossibile. Non mi restava che prendere atto della mia immobilità e registrare le sensazioni che quella visione mi forniva.
Era una persona molto giovane, quasi una ragazza. Sedeva calma, leggermente impettita, ma non rigida, trattenendo con fermezza il suo strumento, con un che di amorevole e di protettivo. I capelli erano scuri: scuri come di corvo, raccolti all’indietro a lasciarle libero il collo che si ergeva snello e bianchissimo al di fuori di una modesta scollatura. Lo sguardo era di aquila, pensai, continuando con nobili rassomiglianze d’animali, scuro, fermo ed altero come non mi era mai stato dato di vedere in una creatura femminile. La bocca era diafana (come tutto il viso, del resto) delicatamente disegnata e si contraeva a tratti, leggermente, forse in qualche passaggio più impegnativo, e a quella contrazione si accompagnava un quasi impercettibile incresparsi della fronte. Ma oso dire che non vi fosse cosa alcuna più affascinante del naso: le sue dimensioni e le sue proporzioni erano semplicemente perfette, né grande né piccolo, morbido e fremente, flessuoso e ritto; d’altra parte, mi mancano le parole per descriverlo adeguatamente.
Dopo qualche altra esecuzione di repertorio, l’orchestra si preparò ad allontanarsi, non prima di aver ricevuto qualche applauso distratto da parte del pubblico che si allontanava anch’esso verso i nuovi piaceri della mensa. Ella si alzò con calma, e con un passo che giudicai di estrema eleganza, si avviò verso l’interno.
Ero completamente privo di forze, per quel combattere contro me stesso nell’assurda lotta fra il restare e il non restare; ma soprattutto ero sopraffatto dalle emozioni che quella vista così inaspettata mi aveva procurato. Anche ora non sapevo esattamente come regolarmi: seguirla? attendere di essere più calmo? averne qualche notizia più precisa? desistere definitivamente? Dopo esser restato alquanto sospeso in quella sconcertante indecisione, finii con l’introdurmi nel caffè, sperando a quel punto di non imbattermi subito in lei, perché sarei stato completamente impreparato circa quel che avrei potuto dire o fare.
Anche lì molti avventori muovevano verso l’esterno, camerieri rassettavano, qualche maestro dell’orchestrina stava trattenendosi al banco, alcune signore si attardavano ancora, ridendo, ad un tavolino ricolmo di pasticcini. Nessuno in vista. Fui preso da uno strano scoramento ed ora avrei mille volte preferito incontrarla, per farmi avanti con un pretesto qualsiasi. Non osavo domandare alcunché e restavo ritto al centro della sala, con la sensazione che tutti mi appuntassero addosso lo sguardo. Alfine non resistetti oltre e uscii.
Pranzai di mala voglia, soprattutto irato contro me stesso per non aver saputo insistere nell’investigazione. Al termine fu quasi un sollievo incontrare Messing, che dovette notare in me qualcosa di strano, perché mi apostrofò: «Costipato, eh?» e si produsse in un’entusiastica perorazione di un rimedio contro le coliche duodenali. Fui sottoposto anche a regolamentare partita, durante la quale persi d’emblée un alfiere e un cavallo, finendo poi sconfitto in meno di venti mosse.

[continua]


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