Rimembranze
Ascoltare i “suoni e silenzi dell’anima” equivale a raccontare e decodificare tutto quanto è insito nella sensibilità di ciascuno, mettendone a nudo gli aspetti più reconditi e profondi. L’anima, principio vitale di tutti gli organismi viventi è, più specificamente, la parte immateriale ed incorruttibile dell’uomo, di origine sicuramente divina e considerata sede delle superiori facoltà umane, come il pensiero, il sentimento, la volontà, la coscienza morale.
Tutto questo ci induce a considerare, “i suoni”, le espressioni estrinsecate materialmente nelle varie facoltà umane, “il silenzio”, i pensieri, i sentimenti, i ricordi. Tutto quanto, in definitiva, attiene all’essenza più intima ed elevata di una persona, con il corredo della sua cultura, dell’esperienza, delle passioni e del suo intelletto.
Le considerazioni sopra esposte mi portano a raccontare episodi ed aneddoti della mia più giovane età, partendo dalla prima infanzia, “memorie”, che sono rimaste impresse nella mia mente e nella mia anima, per un concorso talmente inscindibile di “suoni e silenzi”, che hanno permesso loro di fissarsi in modo sicuramente indelebile.
Della Via Garibaldi, altresì detta “La Rua Nuova” della mia città, conservo diversi ricordi legati alla mia fanciullezza e, man mano, fino alla mia adolescenza e poi alla giovinezza. Il motivo dominante e giustificatore di questi ricordi è sempre ed essenzialmente di natura sentimentale ed ha costituito, nel susseguirsi degli anni, una costante degli accadimenti e delle attività della mia vita.
Questi ricordi, ordinati cronologicamente nel loro divenire, mentre costituiscono la memoria storica di un’epoca che ha dato la stura ad una serie di trasformazioni e di cambiamenti epocali, sono stati i testimoni dell’evoluzione costante dell’uomo e della società e, ancor oggi, il tempo dei mutamenti e delle sfide non sembra essere finito.
La mia nonna materna, era proprietaria di una casa ubicata proprio all’inizio della strada; la nonna, assieme ad una zia, gestiva una rivendita di tabacchi, questa, poiché era l’unica nella zona, era sempre molto frequentata da un gran numero di clienti, giova ricordare che correvano gli anni ’40 ed io avevo allora circa cinque anni.
Dolce è il ricordo di quelle visite alla tabaccheria della nonna, la quale spesso e volentieri, fiera del suo nipotino, mi metteva a sedere sul bancone di vendita dal quale, intrattenevo, amabilmente, in conversazione gli avventori della privativa.
La casa della nonna, per un bambino, ha sempre un fascino speciale, quasi da favola; si trattava, in effetti, di una vecchia costruzione che si sviluppava su tre piani. Al terzo piano esisteva il salone di rappresentanza, lì, avvenivano i pranzi e le cene con tutti i parenti, durante le grandi festività.
Per me quella stanza aveva un’attrattiva particolare, forse perché c’era un angolo riservato ai miei giocattoli o perché, dal balcone si poteva vedere tutto quello che accadeva giù in strada. Spesso sostavo a lungo su quel balconcino adorno di piantine sempre verdi e fiorite e mi piaceva guardare i passanti o il tram che transitava, fragorosamente, sferragliando sulle rotaie con il conducente che avvisava chi, incautamente, stesse attraversando la strada, con un campanello a pedale, molto caratteristico, dal suono metallico e ritmico che ho ancora negli orecchi.
In quel salone c’era poi, per me, un’atmosfera particolare, l’aria delle feste familiari, quando tutti c’incontravamo trascorrendo insieme parte della giornata festiva. Quegli incontri, dei quali ho vivo il ricordo, avevano il sapore caldo e affettuoso delle vecchie famiglie patriarcali siciliane che, nella riunione conviviale, celebravano l’unità e il rafforzamento del vincolo familiare, con una ritualità di tradizione secolare.
In quel contesto temporale della mia fanciullezza, esplose la seconda Guerra Mondiale, i ricordi di quel periodo non sono tutti belli, ce ne sono anche di brutti e spaventosi, legati alla guerra ed ai bombardamenti sulla mia città. Lo sfollamento per motivi bellici, fu un fenomeno di massa caratteristico di quegli anni, Tutti fuggivano dalle città, terrorizzati dai famosi “bombardamenti a tappeto” effettuati dalle “fortezze volanti” americane.
Gli altri ricordi della Via Garibaldi di una volta, paradossalmente, pure essendo relativamente più vicini nel tempo, sono sfumati nelle nebbie degli anni che sono trascorsi, mi vedo passeggiare per quella strada, mentre tornavo a casa dalla Scuola Media, avevo ancora i calzoni corti ed ero insieme ad alcuni miei compagni di classe, c’era ancora il tram, che sferragliava sulle rotaie consumate dal tempo.
Più avanti negli anni, quando frequentavo il Liceo Classico, percorrevo, di corsa, la strada tutta d’un fiato con la bicicletta, la mattina presto, con i libri sul manubrio, legati dagli elastici, i tram non c’erano più e neanche il basolato a terra, era subentrato l’asfalto, anche perché, ai tram erano subentrati i filobus ai quali, ben presto si sarebbero avvicendati gli autobus.
In seguito, eravamo già agli inizi degli anni ’60, quasi prossimo alla laurea, avevo trovato un posto di lavoro, fui assunto presso un settimanale politico locale. La tipografia dove si stampava il mio giornale e dove passavo molte ore, si trovava nella via Garibaldi, a due passi dalla casa di mia nonna, ma quante cose erano cambiate e quante trasformazioni ci sarebbero state, ancora!
La bicicletta da corsa
Il V Ginnasio iniziò sotto i migliori auspici, avevo superato un periodo difficile della mia vita giovanile, ora bisognava mettere a frutto le esperienze accumulate ed impegnare tutte le energie migliori, sotto lo stimolo della maggiore maturità acquisita. Ero stato sempre un cultore convinto dello sport in genere, anche per educazione familiare, mio padre era stato uno sportivo vero e si era dedicato a diverse discipline, anche agonistiche.
Ero appassionato, in modo particolare al ciclismo, sin da piccolo avevo avuto regalata una bicicletta ad ogni evoluzione fisica del mio organismo e questa mia passione era sempre stata seguita e secondata da mio padre. Eravamo agli inizi degli anni ’50, il periodo d’oro del nostro ciclismo agonistico, durante il quale due mostri sacri della bicicletta, che tutto il mondo c’invidiava, dettavano la ferrea legge del più forte sulle strade d’Italia e di Francia: Coppi e Bartali. Non credo che l’Italia abbia più avuto dei campioni così.
Mi piaceva andare in bicicletta e, di questo sport, mi appassionava soprattutto il contatto continuo e quasi osmotico con la natura circostante, era esaltante per me, lo sforzo agonistico per primeggiare sugli altri che con me condividevano questa passione, e lo sforzo fisico che spesso diventava sofferenza, era per me, al tempo stesso soffrire e gioire, per poi sentirmi gratificato, da ogni piccolo successo personale.
Con il mio piccolo sogno nel cassetto e con la prepotente voglia di andare in bicicletta, avevo espresso, accoratamente, a mio padre il desiderio di possedere una bicicletta da corsa. Quella che avevo, infatti, era piuttosto mal ridotta e non corrispondeva più alle mie nuove e mutate esigenze. Egli, tacitamente, aveva acconsentito, io sapevo, però, che la condizione necessaria e sufficiente per essere accontentato, era il raggiungimento della promozione.
E venne il tempo degli esami che furono da me aggrediti, quasi con furore, avevo fretta di liberarmi di questo fardello, il loro esito dentro di me, era quasi scontato, non potevo fallire l’obbiettivo, non era la solita sfida con me stesso, era qualcosa in più, perché racchiudeva in sé il raggiungimento di una méta agognata. Superati brillantemente gli esami, mio padre, visibilmente soddisfatto per il risultato da me conseguito, mi accompagnò nell’unico negozio della città che, allora, vendeva biciclette da corsa ed acquistò per me, una fiammante “Legnano”.
Quella bici, a quell’epoca, era il massimo che si potesse desiderare, con il nuovissimo cambio “campagnolo”, l’ultima evoluzione della tecnica ciclistica, con il suo tradizionale colore verde oliva, con i profili dorati e le cromature sfavillanti, a guardarla era un sogno, per me, divenuto realtà. Era la bicicletta con la quale correva Gino Bartali, allora una leggenda vivente del ciclismo mondiale, per il suo modo di correre, per le imprese sportive che regalava al ciclismo italiano e per il dualismo competitivo che lo opponeva, costantemente, all’altro grande campione di allora: Fausto Coppi, che correva con una bicicletta “Bianchi”.
Quante volte, durante l’inverno, passando davanti la vetrina di quel negozio, mi ero fermato e avevo guardato e riguardato, in una sorta di contemplazione estatica, con desiderio e ammirazione, quel piccolo gioiello della tecnica che era, anche, un modello recentissimo, per l’epoca, di pura estetica ciclistica. Ora, quell’attrezzo sportivo meraviglioso, tanto anelato, era mio.
Avevo un compagno di scuola, del quale ero anche il migliore amico, che con me condivideva la passione per la bici. Appena vista la mia, se ne innamorò e, in breve tempo, riuscì a farsene comprare da suo padre, una identica. Quell’anno si unì a noi un terzo giovane, romano, figlio di genitori siciliani trapiantati nella Capitale, per motivi di lavoro. Questo giovane, ogni anno, veniva a passare le vacanze nella mia città, in casa dei nonni, nostro coetaneo ed appassionato di ciclismo. Il padre gli aveva regalato una bicicletta da corsa “Bianchi”.
Si costituì, così, tra noi il più affiatato e completo terzetto ciclistico della nostra città, in realtà, a quell’epoca c’erano pochi giovani che disponevano di una bicicletta da corsa così prestigiosa come la nostra e chi la possedeva, era un corridore professionista. La definizione di affiatato terzetto ciclistico, corrispondeva esattamente ai comuni interessi, alla comune sviscerata passione per il ciclismo che avevamo e, infine, era completo perché, sia insieme, sia singolarmente, poteva esprimere le migliori doti atletiche di un corridore ciclistico.
Il mio amico e compagno di scuola era un ottimo passista, io ero un interessante scalatore ed il nostro amico romano era un perfetto chronoman.
I percorsi stradali che sceglievamo per le nostre “uscite” erano tutte comprese nel circondario provinciale della nostra città, tuttavia, spesso e volentieri era privilegiata la scalata al vicino Monte Erice, vuoi per la bellezza dei luoghi, vuoi per la natura circostante, irripetibile e quasi incontaminata, vuoi per la difficoltà tecnica del percorso. La bicicletta, in fondo, al di la di quello che può essere il suo utilizzo a fini sportivi ed agonistici, è un perfetto strumento ecologico per tutti, piccoli e grandi, possono usufruire di questo attrezzo per attraversare parchi, giardini, passeggiate lungomare, godendo del contatto con un ambiente esterno salubre e bello da vedere.
L’uomo ha bisogno del contatto con la natura, nella quale s’identifica come espressione suprema di essa, la vita stessa di tutti noi non avrebbe futuro senza la natura che ci circonda, in tutte le sue manifestazioni. Gli animali, le piante e l’aria che respiriamo sono linfa vitale per la nostra salute e la sopravvivenza, nostra e dei nostri figli. Oggi, purtroppo, viviamo nelle città troppo caotiche ed inquinate dalle auto e dagli scarichi industriali, è necessario quindi accostarsi quanto più è possibile alla natura, cercando di ritornare alle origini dell’uomo che in essa ha trovato la culla della sua vita.
Per ritornare alla nostra bicicletta, con questo meraviglioso attrezzo sportivo, affrontavo spesso, in compagnia dei miei amici, la scalata al Monte Erice. Allora, eravamo all’inizio degli anni ’50, le due strade che consentivano l’accesso alla Vetta, erano ancora con il fondo sterrato, non avendo ancora mai conosciuto l’asfalto. E si andava su a fatica, lungo i tornanti che s’inerpicano sulle pendici del monte, per noi che amavamo lo sport, sapevano di Stelvio e di Izoard e ci davano l’illusione di ripetere le imprese dei nostri campioni. Ogni volta era uno sforzo immane, un sudore ed una sofferenza notevoli, ma il raggiungimento della Vetta, ci ripagava ampiamente.
Quell’atmosfera di pace bucolica, il silenzio, l’aria serena, tersa, profumata dalla resina dei pini, si sposava con il nostro desiderio di riposare, dopo un’estenuante fatica che, tuttavia, per la passione sportiva che ci animava, era goduta come un piacere dell’anima. Sotto di noi, fin dove poteva spaziare il nostro occhio, si poteva ammirare il paesaggio da favola che, ogni volta, si offre con una spontaneità ed un’immediatezza unica ai visitatori che giungono in quel luogo mitico.
Fra mare e cielo, Erice ci veniva incontro con il profumo delle sue secolari pinete, con la magia delle sue viuzze nitide e silenziose, con l’affascinante bellezza dei suoi cortiletti fioriti e addormentati. Sospinta dal vento, giunge a volte dal mare una nebbia che avvolge la vetta e, alternativamente, s’infittisce o dirada, suscitando con le sue sfumature i fantasmi di un passato antico ed eterno.
Alla fine, se avessimo avuto un’età più adulta e la volontà di farlo, avremmo potuto scegliere d’intraprendere la carriera sportiva ed agonistica, ma, a quindici anni, ci accontentavamo semplicemente di divertirci, in fondo, in quelle piccole sfide tra noi, non era molto importante chi vinceva, bastava che avessimo potuto esprimere la passione che ci animava e ci spingeva a fruire di uno sport nel quale ci identificavamo e che consideravamo un valore aggiunto alle opportunità che la vita ci offriva.