Opere di

Alda Merini

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Poesie tratte da «Le zolle d’acqua» (Montedit, 1993)

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Il Naviglio

Il Naviglio è una forza energetica e
pura, è una forza atavica come la
morte.
Stare accanto al Naviglio è come
cullare un bambino ch’è sempre sul
punto di perdersi e di lasciarti.
Abitare sul Naviglio è ritrovare un luogo
di destino.
Sono venuta qui giovinetta e forse qui
morirò.
Sognavo un diritto industriale di grande
severità e, forse, chissà, anche il Nobel
della colpa.
(per un presunto premio Nobel)

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Sul cancello della mia educazione

Sul cancello della mia educazione
c’era scritto un breve cartello:
“Qui non si entra più
si muore di nostalgia”.
Invece è entrato un bifolco
con la lanterna in mano
per vedere se c’erano tracce
di un suo vecchio delitto.
Cominciò ad allagarmi la casa
per lavar via il mio sangue,
e lava che ti lava
mi trovò seminuda,
allora corresse il tutto
dicendo che ero immonda
e che l’avevo spinto
sull’uscio degli dei.

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A Padre Davide

Non sei ancora pietra, non sei ancora carne, non
sei ancora colore.
La morte, Davide è un colore avvincente,
inavvicinabile.
Quante volte, quante volte l’avrai invocata nel
tuo eremo di poeta
in quello che ti hanno imposto gli altri.
Però adesso ti sento crepitare fra le mie lenzuola
come se fossi morto nel mio povero letto
dove ogni giorno tenendoti stancamente per
mano
mi sono sentita morire, per colpa di tutti.
Di tutti quelli che hanno ucciso anche te.
Noi saremo, Davide, noi saremo ormai
eternamente colpevoli
perché abbiamo osato amare Dio
attraverso il peso della nostra croce personale
che non è esattamente quella cristiana,
ma che rispecchia l’ultimo grido di Cristo.
Se vuoi Signore, salvaci dalla croce
verso la quale abbiamo lanciato le nostre urla
le nostre finali bestemmie di uomini.
Se vuoi Signore, se puoi Signore salvaci dalla
poesia.

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Poesie tratte da «Vuoto d’amore» (Giulio Einaudi Editore)

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Canto alla luna

La luna geme sui fondali del mare,
o Dio quanta morta paura
di queste siepi terrene,
o quanti sguardi attoniti
che salgono dal buio
a ghermirti nell’anima ferita.
La luna grava su tutto il nostro io
e anche quando sei prossima alla fine
senti odore di luna
sempre sui cespugli martoriati
dai mantici
dalle parodie del destino.
Io sono nata zingara, non ho posto fisso nel mondo,
ma forse al chiaro di luna
mi fermerò il tuo momento,
quanto basti per darti
un unico bacio d’amore.

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I miei poveri versi

I miei poveri versi
non sono belle, millantate parole,
non sono afrodisiaci folli
da ammannire ai potenti
e a chi voglia blandire la sua sete.
I miei poveri versi
sono brandelli di carne
nera disfatta chiusa,
e saltano agli occhi impetuosi;
sono orgogliosa della mia bellezza;
quando l’anima è satura dentro
di amarezza e dolore
diventa incredibilmente bella
e potente soprattutto.
Di questa potenza io sono orgogliosa
ma non d’altre disfatte;
perciò tu che mi leggi
fermo a un tavolino di caffé,
tu che passi le giornate sui libri
a cincischiare la noia
e ti senti maestro di critica,
tendi il tuo arco
al cuore di una donna perduta.
Là mi raggiungerai in pieno.

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Quando ci mettevano il cappio

in ricordo di Giorgio Manganelli

Quando ci mettevano il cappio al collo
e ci buttavano sulle brandine nude
insieme a cocci immondi di bottiglie
per favorire l’autoannientamento,
allora sulle fronti madide
compariva il sudore degli orti sacri,
degli orti maledetti degli ulivi.
Quando gli infermieri bastardi
ci sollevavano le gonne putride
e ghignavano, ghignavano verde,
era in qual momento preciso
che volevamo la lapidazione.
Quando venivamo inchiodati in un cesso
per essere sottoposti alla Cerletti,
era in quel momento che la Gestapo vinceva
e i nostri maledettissimo corpi
non osavano sferrare pugni a destra e a manca
per la resurrezione degli uomini.
Ma la Gestapo noi adesso vogliamo colpirla
e vogliamo instaurare la ghigliottina
ed anche la rivoluzione francese,
proprio sul patio ove sorgeva l’oggetto infame
delle nostre vicissitudini di uomini,
la ghigliottina sorda dal vorticoso silenzio
per le teste degli psichiatri adunghi.
Noi vogliamo vederle rotolare per terra
come delle palle da ping pong.
A lungo fummo calati nelle racchette del gioco,
a lungo fummo palle volo, giochi di baseball.
Adesso basta, vogliamo giocare anche noi
e io che amo zappare la terra
costruirò questo campo per i ludi gioiosi dei pazzi.
Noi la letteratura la facciamo sui vertici
in mezzo a picchi di ghiaccio
e beviamo fiele per riprendere fiato,
ma noi balliamo sui ghiacci
con tutta la forza aere del dolore,
e imitiamo le silfidi più pure,
quando diamo i nostri gemiti più dolci.
Nulla più di questo potrà innamorare la folla
assetata di sangue e di imposture
e di grumi di sangue non mentalmente dissolti,
E così anche oggi ho speso fino all’ultimo centesimo di
parola
per dare la mia escursione alla luna
là dove finì il senno di Orlando,
ma dove non finirà il pinnacolo d’oro
del Paolo Pini demente.

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Poesie tratte da «Vuoto d’amore – Poesie per Charles» (1982)

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O poesia, non venirmi addosso,
sei come una montagna pesante,
mi schiacci come un moscerino;
poesia, non schiacciarmi,
l’insetto è alacre e insonne,
scalpita dentro la rete,
poesia, ho tanta paura,
non saltarmi addosso, ti prego.

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Poesie tratte da «Vuoto d’amore – La gazza ladra – Venti ritratti (1985)

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Io non sarò più libera come un uccello,
dacché tu te ne sei andato
e hai legato le ali con le piume
del tuo passaggio segreto.
Liberami, amore mio,
che conosca la tangenziale dell’Ovest,
ancora,
che conosca i tripudi delle strade,
l’assenteismo del canto.
Liberami, amore mio,
da questa molestissima pece,
che è il sudore della tua morte
impresso sulle mie carni.

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Elegia

O la natura degli angeli azzurri,
i cerchi delle loro ali felici,
ne vidi mai nei miei sogni?
O sì, quando ti amai,
quando ho desiderato di averti,
o i pinnacoli dolci del paradiso,
le selve del turbamento,
quando io vi entrai anima aperta,
lacerata di amore,
o i sintomi degli angeli di Dio,
i dolorosi tornaconti del cuore.
Anima aperta, ripara le ali:
io viaggio dentro l’immenso
e l’immenso turba le mie ciglia.
Ho visto un angelo dolce
ghermire il tuo dolce riso
e portarmelo nella bocca.

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Non guardarti allo specchio

Non guardarti allo specchio,
potresti vedere i solchi delle passate avventure,
e l’idra del tuo comando.
Perché vuoi saggiare i dolci colli di ardore,
così come le mimose del tempo,
e il tuo correre sopra i colli
aspettando l’unico amore?
L’amore ahimé ti ha tradito
per un pugno di conoscenza,
per amore delle parole altrui.
Perciò, Alda, non guardarti allo specchio;
scopriresti che dietro di te non hai una spalla pura,
la spalla su cui si volgeva il sangue
o la faccia di un tempo infelice.
Dietro di te è il nulla, una tomba
che grida sopra il destino.
Dietro di te è la mano circospetta dell’Angelo,
che ti inganna, ti inganna da sempre,
parlando a te dell’Annunciazione.

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Poesie tratte da «Poesie per Marina» (1987-1990)

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Non ho quiete

a Vanni Scheiwiller

Non ho quiete, non ho pianto leggero,
non ho quella dischiusa meraviglia
che chiama fiore il fiore, non ho tempo
di decifrare gli aridi messaggi
del mio tempo dannato, mi arridosso
al mio muro di futile speranza,
arrossendo se mai tu mi perdoni.

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A Milano

a Marina Bigotti e Chiara Negri

Era il tempo dell’adorata giovinezza
quando gli alberi schiusi
gemevano tristezza,
era il tempo degl’innamorati dolori
e dei sordi frastuoni della terra,
Milano benedetta
patria di sicurissime storie
di frangenti mobili oscuri,
Milano dove è nata la mia poesia
e dove la mia poesia è morta
lungo il Naviglio che geme,
dove la patria Italia ha un riferimento sicuro,
dove vivono Marina e Chiara
dove sono nati i miei figli
dove i miei figli mi abbandonano
giorno per giorno,
dove l’emarginato e il povero
trovano il suo caldo affetto
dove tutto brilla all’insegna della cultura
e dove le sere sono dolenti
come il mare di Taranto
dove ho lasciato un lungo sconfinato amore
morto di lebbra e di ardente desiderio di rivederti.

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Poesie tratte Da «La Terra Santa»

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Manicomio è parola assai più grande
delle oscure voragini del sogno,
eppur veniva qualche volta al tempo
filamento di azzurro o una canzone
lontana di usignolo o si schiudeva
la tua bocca mordendo nell’azzurro
la menzogna feroce della vita.
O una mano impietosa di malato
saliva piano sulla tua finestra
sillabando il tuo nome e finalmente
sciolto il numero immondo ritrovavi
tutta la serietà della tua vita.

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Io ero un uccello
dal bianco ventre gentile,
qualcuno mi ha tagliato la gola
per riderci sopra,
non so.
Io ero un albatro grande
e volteggiavo sui mari.
Qualcuno ha fermato il mio viaggio,
senza nessuna carità di suono.
Ma anche distesa per terra
io canto ora per te
le mie canzoni d’amore.

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Sono caduta in un profondo tranello
come dentro ad un pozzo acquitrinoso.
O chi potrà salvarmi da questa immagine scaltra
che adombra un mobile amore?
In fondo al pozzo stanno giunchiglie di ombre
e il mio urlo sovrasta le acque.
Il camaleonte gagliardo guarda dalle orride piante
questo mio precipizio segreto.

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Le più belle poesie
si scrivono sopra le pietre
coi ginocchi piagati
e le menti aguzzate dal mistero.
Le più belle poesie si scrivono
davanti a un altare vuoto,
accerchiati da agenti
della divina follia.
Così, pazzo criminale qual sei
tu detti versi all’umanità,
i versi della riscossa
e le bibliche profezie
e sei fratello a Giona.
Ma nella Terra Promessa
dove germinano i pomi d’oro
e l’albero della conoscenza
Dio non è mai disceso né ti ha mai maledetto.
Ma tu sì, maledici
ora per ora il tuo canto
perché sei sceso nel limbo,
dove aspiri l’assenzio
di una sopravvivenza negata.

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Laggiù dove morivano i dannati
nell’inferno decadente e folle
nel manicomio infinito,
dove le membra intorpidite
si avvoltolavano nei lini
come in un sudario semita,
laggiù dove le ombre del trapasso
ti lambivano i piedi nudi
usciti di sotto le lenzuola,
e le fascette torride
ti solcavano i polsi e anche le mani,
e odoravi di feci,
laggiù, nel manicomio
facile era traslare
toccare il paradiso.
Lo facevi con la mente affocata,
con le mani molli di sudore,
col pene alzato nell’aria
come una sconcezza per Dio,
laggiù nel manicomio
dove le urla venivano attutite
da sanguinari cuscini
laggiù tu vedevi iddio
non so, tra le traslucide idee
della tua grande follia.
Iddio ti compariva
e il tuo corpo andava in briciole,
dalle briciole bionde e odorose
che scendevano a devastare
sciami di rondini improvvise.

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Ogni mattina il mio stelo vorrebbe levarsi nel vento
soffiato ebrietudine di vita,
ma qualcosa lo tiene a terra,
una lunga pesante catena d’angoscia
che non si dissolve.
Allora mi alzo dal letto
e cerco un riquadro di vento
e trovo uno scacco di sole
entro il quale poggio i piedi nudi.
Di questa grazia segreta
dopo non avrò memoria
perché anche la malattia ha un senso
una dismisura, un passo,
anche la malattia è matrice di vita.
Ecco, sto qui in ginocchio
aspettando che un angelo mi sfiori
leggermente con grazia,
e intanto accarezzo i miei piedi pallidi
con le dita vogliose di amore.

✒ ✑ ✒

I versi sono polvere chiusa
di un mio tormento d’amore,
ma fuori l’aria è corretta,
mutevole e dolce ed il sole
ti parla di care promesse,
così quando scrivo
chino il capo nella polvere
e anelo il vento, il sole,
e la mia pelle di donna
contro la pelle di un uomo.

✒ ✑ ✒

Ho acceso un falò
nelle mie notti di luna
per richiamare gli ospiti
come fanno le prostitute
ai bordi di certe strade,
ma nessuno si è fermato a guardare
e il mio falò si è spento.

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Ah se almeno potessi,
suscitare l’amore
come pendio sicuro al mio destino!
E adagiare il respiro
fitto dentro le foglie
e ritogliere il senso alla natura!
O se solo potessi
toccar con dita tremule la luce
quella gagliarda che ci sboccia in seno,
corpo astrale del nostro viver solo
pur rimanendo pietra, inizio, sponda
tangibile agli dèi…
e violare i più chiusi paradisi
solo con la sostanza dell’affetto.

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Alda Merini


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