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Poesie tratte da «Senza eden Poesie scelte (1929-1980)», Medusa, traduzione
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Inquietudine
Dove si custodisce la mia stella,
il mio cristallo d’amore?
La note mi nega il suo busto d’aurora
e andiamo straniere, separate,
senza coincidere mai.
Perché se non sono amore di nulla
sono amore del mio ignoto?
E questa tenerezza che cinge le mie spalle,
che oscura l’oro del mio cuore,
perché mai se vado in cerca dell’acqua
solo conosco l’eco della fonte?
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Possesso
Cadevi in me.
Eco del tuo peso, la mia vita,
era un canto che precipitava
nell’eternità.
Immerso nel mio silenzio,
sei il cielo che un ruscello sostiene,
che un albero innalza,
dove una stella spezza la sua voce
di eternità.
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Scoperta
Nuda e aderente alla tua nudità.
I miei seni come ghiaccio appena inciso,
sull’acqua piana del tuo petto.
Le mie spalle aperte sotto le tue spalle.
E tu fluttuando sulla mia nudità.
Alzerò le braccia e sosterrò il tuo volo.
Potrai scoprire il mio sogno,
poiché il cielo riposerà sulla mia fronte.
Affluenti dei tuoi fiumi saranno i miei fiumi.
Navigheremo insieme, tu sarai la mia vela,
e io ti condurrò per mari ignoti.
Quale supremo incanto di geografie!
Le tue mani sulle mie mani.
I tuoi occhi, uccelli del mio albero,
sull’erba del mio capo.
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Amore mio
Distanze della nebbia, vetuste
distanze del Dolore, che bella aurora
accanto allo stelo della tua voce, del tuo respiro!
Per te gli anni si sgelano grigi,
per te le ore si spogliano tenere,
amor mio, mio!
Il tuo corpo, la mia passione, due voci sonore
in mezzo alla vita che lotta.
Svegliami. Sfodera la tua spada oscura
dal mondo illuminato che è mia tempesta.
E portami con te, amore mio,
allontanami da me che vengo meno.
Sei tu il mio specchio, il mio giorno
che non teme d’essere consunto.
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Giardino dell’Escorial
Qui c’è sempre silenzio, forse perché la pietra
respira il più profondo riposo dell’anima.
I secoli vennero qui a ondate a infrangersi
contro l’indifferenza eretta dei muri.
È un giardino senza fiori. Il bosso lo popola,
lo cinge silenzioso con nobile abbandono
all’angolo degli occhi, prua del Monastero,
di fronte alla verde macchia del bosco.
I monti lo circondano, aprendo nel suo fianco
l’intenso chiarore del limite superbo.
I sentieri accolgono borghi, e un monte dorato
chiude il vasto paesaggio silenzioso.
Il tempo cambia gli uccelli: cicogne, rondini,
persino i neri corvi vengono nel Giardino.
Lo sorvolano, lo circondano, e compiono lunghe
distanze sul mare per poi tornare qui.
Le sfere che modellano le forme delle pietre
si riflettono nel bosso con un verde intenso.
Ci sono fonti asciutte, ormai quasi polvere,
e di sotto, nell’orto, le magnolie in fiore.
Non so quante finestre si nutrono di paesaggio.
Molte non aprono mai le loro porte verdi.
Altre corrispondono a soggiorni di quiete,
altre ancora segnalano le tombe dei re.
Tutto dimentichiamo quando qui ci fermiamo.
Le nubi e i monti si muovono o nuotano.
Il mondo è assai lontano, appena lo si avverte.
La realtà si veste di chiari scampanii.
È d’oro nel sole e grigio della sera.
Il passato racconta con le pietre antiche.
Chi non ha nulla, si deprime.
Ma chi aspira al cielo lo sostiene la terra.
Qui la terra è dura, ostile e sempre arsa.
Il freddo brucia il mondo, il sole lo fa suo.
Ma chi ha spirito, vince: così imprime
il su passo nobile e fermo nel suolo, nell’aurora.
Solo a chi è di passaggio si nega il Giardino,
né i boschi lo cingono con il loro chiaro silenzio!
L’adusta maestà del borgo non gli imprime
l’intatta nobiltà di un carattere raro.
Io qui ho potuto trarre il meglio della mia vita.
Ho imparato a conoscermi, a sapere ciò che voglio.
E non posso allontanarmi, per non perdere
questa certezza della Terra e del Cielo.
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Conoscenza
Prima ancora del sangue che mi fece
è questo flusso incessante.
Come se tutte le donne abbracciate,
non avessero mai dato con vivace clamore
la parte profonda della loro vita:
fino all’avida terra della tomba,
fino al delirio con cui la bocca
erompe quando avverte
il paradiso d’amore che arde.
Che pozzo c’è ai piedi della mia esistenza?
Che mano libera la mia anfora di gioie?
Oh sete di quella voce che mi soggioga!
Aprirsi in una fiamma, aprirsi in una rugiada…
Essere contenuta, limitata,
posseduta da una forma unica.
Allontanare l’antica inquietudine, la terribile
inquietudine della carne e dello spirito.
Restare in estasi eterna!
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Destino
Se non sono radice e solo questo,
ahi, quando si vedranno il mio stelo e i fiori,
e quando nasceranno i miei frutti?
Quale giorno attende il tempo, quale l’aria,
e perché Dio mi vuole lancia oscura
nella sua dura terra?
Non è che non voglio più essere radice
quando già posso esser tronco, foglie, rami,
dei miei fiori più belli.
Frutto fra i denti degli uomini,
voglio continuare ad essere radice.
Spiccare il saldo trascinando terra
e unirla al cielo.
Sempre radice, tra il grano
scuro come ora sono scura.
Ma andando verso il regno del volo,
camminando tra le brezze; essere il porto degli uccelli,
il legno della nave, e che le coppe
si colmino del mio corpo e della mia essenza.
Se non spero d’essere fiore, aprirmi in frutto,
avere tra le mani terra e cielo,
vibrare come colonna tra i due…
Tu Dio; Tu che mi hai creato, non costringermi
ad essere una radice della terra:
radice, solo radice: profonda radice!
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La mia fiamma
Sa forse mia madre dove trasse la mia vita?
Con me si trovò un giorno come in una tempesta.
Neppure avrà saputo come fare con il fulmine.
Né se è possibile opporre alla pioggia furiosa
una sponda ardente di fiamme.
Ho cercato intorno a me sino a trovarmi sola.
Prima di me, nella mia stirpe, non conosco altri esseri.
Chi furono i miei, ormai nel mio sangue?
Con quali altri il mio corpo, con quali altri la mia anima
continua sulla terra?
Se glielo chiedessi non saprebbe rispondermi.
Così estranea è la mia lingua come lo sono gli occhi.
Madre, tu sai forse
perché io sono così, di chi è questa nostalgia
di tanti paradisi?
Il silenzio la colmerebbe cercando nelle sue viscere
la mia radice e il violento flusso
che la mia corrente lanciò come un corsiero schiumante.
Allora si potrebbe udire la distanza
che esiste tra noi, essendo lei la mia origine.
Una madre è la grotta dove nasce il fiume.
Una madre è la terra su cui scorre l’acqua.
Ma il fiume… va così lontano in cerca dell’oceano!
E la terra: nel fondo, silenziosa, inconscia,
su un’altra terra che ugualmente ignora.
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La consegna
Perché il corpo,
tutto il corpo che accoglie dalla vita
il suo oscuro ma anche nobile potere,
è sempre qui, resterà sempre.
E chi ama e desidera vuole
possedere e darsi possedendo.
Sera e notte, aurora o mattino,
amore, amare chiede il corpo
in dolce andare, o tumulto
lungo il sentiero coperto di lave:
oscura eternità che dà alla vita
una morte infissa.
Un gelido vulcano; sono oceani
chiari e violenti
con ardore di morire quando io amo?
Perché è così l’abbandono di chi ama:
una dispotica sciagura.
Sono io così, sono io questo, si chiede,
crescendo del selvaggio incrocio,
vivendo la mia morte che riscatto,
con furia di morire mentre amo?
Il corpo dolcemente ascolta dentro
e un altro io lo soffoca chiedendo.
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Poesie in lingua originale:
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Poesie tratte da «Senza eden Poesie scelte(1929-1980)», Medusa, lingua originale
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Inquietud
¿Dónde se guarda la strella mía,
mi cristel e amor?
La noche me niega su torso de aurora
y vamos extrañas, desprendidas,
sin coincidir jamás.
¿Para qué, si a nada le soy amor
soy yo amor en lo desconocido mío?
Y esta ternura que ciñe mis hombres
que entolda el oro de mi corazón.
¿Para qué, si estoy buscando el agua
y sólo conozco el eco de la fuente?
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Posesión
Caías en mí.
Eco de tu pesantez mi vida,
era una canción precipitándose
en la eternidad.
Inmerso en mi silenzio
eres el cielo que sostiene un arroyo,
que levanta un árbol.
En que un lcero corta su voz
de eternidad.
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Hallazgo
Denuda y adherida a tu desnudez
Mis pechos como hielos recién cortados,
en el agua plana de tu pecho.
Mis hombres abiertos bajo tus hombros.
Y tú, flottante en mi desnudez.
Alzare los brazos y sostendré tu aire.
Podrás desceñir mi sueño
porque el cielo descansará en mi frente.
Afluentes de tus ríos serán mis ríos.
Navegaremos juntos, tú serás mi vela,
y yo te llevaré por mares escondidos.
¡Qué suprema efusión de geografías!
Tus manos sobre mis manos.
Tus ojos, aves de mi árbol,
en la yerba de mi cabeza.
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Amor mío
Distancias de la niebla, envejecidas
distancias del Dolor: qué ermosa aurora
cerca del tallo de tu voz, de tu respiro!
Por ti los años de deshielan grises,
por ti las horas se desnudan tiernas,
¡amor tan mío!
Tu cuerpo y mi pasión, dos resonancias
en medio de la vida que condurre.
Despiértame. Saca tu lanza oscura
del mundo en claridad que es mi tormenta.
Y llévame por ti, oh amor del mío,
y llévame de mí que desfallezco.
Eres tú mi espero, la jornada
que no puede temer ser consumida.
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Jardín del Escorial
Aquí sempre hay silenzio, quizá porque la pietra
el más hondo reposo rezma para el elma.
Los siglos a oleadas vinieron a romperse
bajo la indiferencia erguida de las tapias.
Es un jardín sin flores. El boj lo puebla todo,
se ciñe silencioso con una entrega noble
al ángulo de los ojos que es proa del Monasterio
enfrente de la verde muchedumbre del bosque.
Los montes lo rodean, en un costado abriendo
la intensa claridad del límite ambicioso.
Las sendas cogen pueblos, y hay un monte dorado
cerrándonos el amplio paisaje silencioso.
El tiempo cambia pájaros: cigüeñas, golondrinas,
y asta los negros cuervos acuden al Jardín.
Lo vuelan, lo rodean y emprenden dilatadas
distancias sobre el mar, hasta volver aquí.
Las bolas que rematan las formas de la pietra
en boj se reproducen con redondo verdor.
Hay fuentes que no manan, muy cerca ya del polvo,
y en la huerta de abajo los magnolios en flor.
No sé cuántas ventanas se nutren de paisaje.
Hay muchas que no abren jamás sus puertas verdes.
Hay otras que responden a estancias de sosiego,
más otras que señalan las tumbas de los reyes.
Todo se nos olvida cuando aquí nos anclamos.
Las nubes y los montes se mueven y hasta nadan.
El mundo está muy lejos, apenas se le siente.
la realidad se inviste de tersas campanadas.
De oro con el sol y gris cuando atardece.
Un pasado que cuentaen la vejez de pietra.
Aquel que nada tiene en sí, se dosmorona.
Pero al que aspira el cielo le sostiene la tierra.
Aquí la tierra es dura, hostil y sempre seca.
El frío abrasa el mundo, el sol se lo incorpora.
Pero el que tiene espíritu, lo vence: así señala
su paso noble y firme en el suelo, en la aurora.
¡Sólo al que va de paso el jardín no se entrega,
ni lo envuelven los bosques con su silencio claro!
La adusta majestad del pueblo no le imprime
el señorío intangibile de su carácter raro.
Yo aquí pude sacar lo mejor de mi vida.
Aprendí a conocerme, a saber lo que quiero.
Y no puedo alejarme, para nunca perder
esta seguridad de la Tierra y el Cielo.
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Conocimiento
De antes de la sangre que me hizo
viene este resuello sin reposo.
Como si todas las mujeres abrazadas,
nunca viva y clamorosamente,
hubieran entregado el fondo de sus vidas:
hasta la tierra ávida de la tumba,
hasta el delirio en que las bocas
prorrumpen cuando se presiente
el paraíso del amor que abrasa.
¿Qué pozo hay al pie de mi existencia humana?
¿Qué mano desaloja mi cántaro, de júbilos?
¡oh sed de aquella voz que me rebose!
Abrir en un llama, abrir en un rocío…
Estar contenda, limitada,
poseída por una forma única.
Retroceder la inqueietud de origen, la tremenda
inquietud de la carne y del espíritu.
¡Quedarme en éxtasis eterno!
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Sino
Si no es que soy raíz y sólo eso.
¡ay!, ¿cúando se verán mi tallo y flores,
y para cuándo emergerán mis frutos’
¿Qué día espera el tiempo, cuál el aire,
y por qué Dios me quiere parda lanza
dentro de su tierra dura?
No es que quiera dejar de ser raíz
cuando ya pueda ser tronco, hojas, ramos
de mis flores más preclaras.
fruto entre los dientes de los hombres,
quiero seguir siedo raíz.
Dar el salto tirando de la tierra
y juntarla con el cielo.
Raíz sempre, entre los granos
pardos como ahora soy de parda.
Pero yendo hacia el ámbito del vuelo
moverme entre las brisas; ser el puerto de las aves,
la tabla del navío, y que los vasos
se colmen de mi cuerpo y de mi esencia.
Si no espero ser flor, abrir en fruto,
tener entre mis manos cielo y suelo,
vibrar columna entre los dos…
¡Tú, Dios, Tú que me hicist, no me obligues
a ser una raíz dentro de tierra:
raíz sólo raíz: raíz hincada!
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Mi llama
Es que sabe mi madre de dónde trajo mi vida?
Se encontró conmigo un día como una tormenta.
No sabría tampoco que hay que hacer con el rayo.
Ni si a la lluvia frenética es posible oponerle
una orilla inflamada de llamas.
He buscado en torno mío hasta saberme sola.
Antes de mí, en mi raza, no conozco a otros seres.
¿Quiénes fueron los míos, dentro ya de mi sangre?
¿A qué otros mi cuerpo, a qué otros mi alma
continúa en la tierra?
Si se lo dijera a ella no sabría contestare.
Tan ajena es mi lingua como le son mis ojos.
Madre, ¿sabes tú pr ventura
por qué soy así yo, de quién es la nostalgia
de tantos paraísos?
La poblaría el silencio buscándole en su entraña
la raíz de las mías, y el hontanar violento
que manó mi corriente como un corcel de espuma.
Entonces se podría escuchar la distancia
que entre nosotras hay, siendo ella mi origen.
Una madre es la cueva de donde arranca el río.
Una madre es la tierra por donde corre el agua.
Pero el río…, ¡va tan lejos a buscarse océanos!
Y la tierra, en lo hondo, silenciosa, ignorante,
enzima de otra tierra que también desconoce.
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La entrega
Porque el cuerpo,
todo el cuerpo albergándole a la vida
su oscura dunque preclara omnipotencia,
sempre está aquí, estará sempre.
Y quien ama y quien desea, quiere
poseer y entregarse poseyendo.
Tarde y noche, amanecer o mañana,
al amor, el amar reclama el cuerpo
en tenue caminar, o alboroto
por de lavas repleto sendero:
la sombría eternidad que da a la vida
una muerte incrustada.
Un helado volcán; ¿son océanos
lúcidos y vertiginosos
con furia de morirme mientras amo?
Porque así es la entrega del que ama:
una despótica catástrofe.
¿Soy yo así, soy yo esto, se pregunta,
creciendo de salvaje encrucijada,
vivendo de mi muerte que rescato,
con furia de morirme cuando amo?
El cuerpo docilmente escucha dentro
y otro yo se le asfixia en la pregunta.
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Carmen Conde