Racconti randagi

di

Ermanno Gelati


Ermanno Gelati - Racconti randagi
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 128 - Euro 12,00
ISBN 978-88-6587-1218

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Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2011


Forse il lettore, osservando il grafico stampato sulla copertina, immaginerà di leggere storie che abbiano a che fare con animali, nella fattispecie gatti.
In questo libro di racconti, contrariamente al precedente, non ci sono storie che riguardano la simpatica specie felina stilizzata.
Tuttavia esiste un nesso, anzi due, tra il titolo e l’illustrazione.
Il primo è un ironico sodalizio tra parola e immagine.
Il secondo riguarda unicamente il titolo e non è un “divertissement” ma ha una precisa ragion d’essere: questi dodici racconti, sono stati scritti nei luoghi dove le loro trame si svolgono, e cioè in diverse regioni e nazioni. Per questo ho pensato che niente avrebbe reso l’idea meglio dell’aggettivo “randagi”.

L’autore


Prefazione

Saranno pure randagi questi racconti, ma sanno trovare casa, o, almeno, buona accoglienza al caldo tepore di uno scaffale di libreria a portata di mano. Staranno là, ben incasellati, certo tra i fratelli maggiori, inarrivabili, della narrativa, tra la grazia rotonda dei Cechov e l’asciuttezza “tranchant” dei Carver, ma un posto dignitoso lo troveranno pure.
Intanto per la levità del narratore (che anche si chiama stile, o, come per i film di Truffaut, per la mancanza di uno stile riconoscibile, ma con l’essenza del fatto narrato), per quella semplicità linguistica che oggi è aria fresca, o brezza salutare in mezzo ai miasmi pesanti dei finti drammi.
Qui c’è la naturalezza del racconto, la brevità – sta diventando sempre più un pregio –, la cadenza della successione dei fatti che inchioda (no, seduce) il lettore a scoprire come si arriverà allo svelamento finale, a quelle poche frasi terminali che danno un senso alla narrazione precorsa.
Così c’è interesse, c’è una breve attesa della conclusione, che è lieve o pensosa, o problematica perché i problemi non vanno rimossi, bensì esplicitati anche nel dolore – condimento naturale delle nostre vite, inutile tentare la dieta della rimozione – e, soprattutto nel cronachismo leggero del “mi capita che…”, o, in modo lontano dal protagonismo “capita anche che…”
Così appare leggero e incantevole che “LE BALENE CANTANO”. Cantano o no? Dal canto loro, sì, e un bambino diventa un piccolo poeta trasgressivo delle leggi della fauna. Cantano eccome, se appena si sta attenti al lessico scolastico. E “COL CAPPELLO SIAMO PARI” siamo alla sintesi brutale di un rifiuto di un sentimento soltanto perché l’uomo è sgradevole (mai lasciarsi crescere le unghie fuori misura): non si coglie l’interiorità, che rimane appassionata ma misteriosa, restando all’impressione esteriore (eppure Quasimodo, il “Gobbo di Notre Dame” e “La bella e la bestia” di Disney qualcosa di significativo l’avranno pur detto. Non abbastanza). Anche il Celeste di “BESTIE FEROCI” si imparenta, per sgradevolezza, al precedente e come l’altro ha il destino del rigetto, perché, plausibile nella realtà, non “appare” plausibile nel racconto dentro il racconto.
Ma non sempre c’è la leggerezza della vita vista da vicino, c’è – con la stessa levità e leggerezza – anche il dramma.
HOPKINS & ALLEN CO.” propone la storia di due attese. Di che? Della morte, perché esiste. Una morte cercata lascia spazio a una morte annunciata, ma accettata con la naturalità dei forti. La morte cercata sarà rimandata: non per molto, basta aspettare il turno, ma intanto sembra vincere la vita (che è tutto, comprende anche la morte, ma come dicevano i latini “affrettiamoci lentamente”, est modus in rebus). Del resto, come in “AIGUEBELETTE”, basta sfiorarla, la morte, per apprezzare la vita, pur complicata che sia.
E magari cercare alla vita una dimensione più misteriosa, più abbandonata (mistica, per chi ci crede) tra le navate di una chiesa, come in “SAINT PATRICK’S DAY”.
Insomma il lettore percorrerà, con l’autore, una strada a curve. Ogni curva apre un paesaggio nuovo, bello o aspro. Più stimolante di un’autostrada dritta e noiosa. Buona lettura.

Ottavio Ferrario


Racconti randagi


Parigi al risveglio scomposta,
cruda luce nelle sue strade color limone.
Mollica umida di panini, l’assenzio verderana,
il suo incenso mattutino, blandiscon l’aria.

James Joyce


UN PROVVIDENZIALE CONTRATTEMPO
(ovvero: meglio mangiare sushi)

Il telefono squillava da un po’.
«Dio, com’è fastidioso questo suono!» Non poté fare a meno di pensare irritata Daniela; in quei pochi secondi, esattamente quelli che impiegò a precipitarsi sul telefono e sollevare il ricevitore, promise solennemente a se stessa di cambiare il tipo di suoneria: era decisamente una melodia orribile.
«Pronto?» Disse ansimando leggermente.
«Sono Katia, disturbo?»
«No, no, è che ero distante e ho dovuto correre… come va?» rispose, anche se quel “come va” era di troppo, visto che si erano incontrate il giorno precedente in edicola, o meglio, in quel curioso negozio all’angolo sotto i portici, dal nome stimolante: “La boutique del libro”, che non si poteva definire superficialmente “edicola”, era piuttosto una piccola libreria.
Il locale si divideva in due parti, appena all’ingresso, dietro ad una vetrata, erano esposti i giornali e le riviste, nell’altra metà c’era una piccola, deliziosa, libreria, con gli scaffali disposti ad “U” con, nel centro di quella sorta di ferro di cavallo, un banco quadrato ricoperto di libri.
«Ti ho telefonato per invitarti a cena questa sera. Sei libera?»
Disse la donna all’altro capo del telefono. Era un invito deciso, senza tentennamenti o esitazioni, come quelli che a volte si ha l’aria di fare, non avendo la convinzione di invitare veramente.
Daniela pensò, in una frazione di secondo, che non avrebbe potuto sottrarsi ad una richiesta così ferma, quasi perentoria; cercò affannosamente, senza darlo a vedere alla sua interlocutrice, di trovare una scusa qualsiasi, ma il tempo a disposizione dei suoi riflessi per inventarsi una risposta convincente era troppo limitato, quindi non le rimaneva che accettare l’invito.
«Ma… sì… grazie, siete sempre così carini…»
Intanto pensava tra sé e sé: «Addio sushi.»
«Benissimo! Siamo d’accordo allora.» Rispose l’amica e proseguì:
«Notizie di tuo marito?»
«Le solite. La vita a Tokio è sempre frenetica, i clienti troppo esigenti anche se cerimoniosi, l’ufficio troppo piccolo, il personale insufficiente, cosa vuoi che ti dica… le solite cose insomma. Fortunatamente Aldo ritorna la settimana prossima e staremo insieme per quindici giorni filati… un record di questi tempi!»
«Ma insomma…» Rispose Katia,
«Io non ho ancora capito bene. Spiegami meglio cosa fanno in quella filiale… ma è proprio necessaria?»
«Uh, lascia perdere!» Rispose Daniela e proseguì con evidente disappunto:
«Quanto mai ha accettato quell’incarico! Alla sua età poi! Aprire un ufficio in un altro continente e… ma come ti dicevo, lasciamo perdere. Perché non ci hanno mandato un collega più giovane proprio non lo so.»
Terminò sbuffando e guardando fuori dalla finestra, quella che dava sul giardino: a fine autunno era proprio una vista magnifica. Quasi tutte le piante erano ricoperte di foglie dai toni perfettamente cromatici: dal marrone tenue al ruggine quasi violetto. Il bel paesaggio si agitava ininterrottamente, grazie alla leggera brezza autunnale, tanto da dare l’impressione che fluttuasse letteralmente sopra quel terreno erboso fin troppo verde per la stagione; in fondo e nascosta dalla vegetazione, c’era l’abitazione dell’amica con cui stava parlando: una villa a due piani simile alla sua.
La voce dell’altra che usciva dal minuscolo altoparlante la scosse. Abbandonò di malavoglia la contemplazione sedendosi sul divano: cominciava a realizzare che quella conversazione sarebbe continuata per un po’, la sua interlocutrice non dava, con il suo tono di voce, la minima parvenza di un commiato imminente e allora Daniela, rassegnata, si distese, appoggiando la schiena sui due cuscini in tinta unita dai toni pastello che stavano eretti sul bracciolo del divano di pelle bianca, fissando pazientemente il soffitto.
«Be’ lo sai perché!» disse Katia asciutta,
«…cosa?» Rispose Daniela pigramente.
«Ma sì, il motivo di quell’incarico… mi sembra ovvio no? Avranno avuto le loro buone ragioni, ti pare? E non è che voglia cantare le lodi di qualcuno…»
«Certo, per fare il proprio interesse quelli non li batte nessuno, conoscono l’affidabilità e la competenza di Aldo, ma con tutti gli ingegneri giovani che si ritrovano proprio lui dovevano scegliere?» e aggiunse:
«Ti prego, cambiamo discorso… è meglio.»
«In fondo però state facendo entrambi una esperienza straordinaria ammettilo!» Replicò convinta l’amica, continuando testardamente:
«Riconosci che anche tu… le volte che ti ha portata a Tokio… non dirmi che non è stimolante! Veramente c’è il pericolo di morire avvelenati per via di tutto quel pesce crudo, comunque… no scusa… ammetto che è una battuta infelice»
Dopo un sospiro proseguì:
«Io invece sono sempre qui a fare le solite vacanze programmate, con un marito relativamente giovane già in pensione, che non pensa altro che a camminate in montagna e a cercare funghi… Uff! Se questa non è noia mortale! Anche questa mattina ci è andato e pensa, si è portato nuovamente l’orso Yoghi»
«Chi?» rispose confusa Daniela.
«Ma sì», rispose con un tono di voce concitato Katia:
«Quella palla di lardo del suo amico ed ex collega, sì Dario, lo conosci no? Ba! Figuriamoci, mi viene da ridere se penso a quel bestione… li deve schiacciare sotto ai piedi i funghi per vederli, senza contare che quelle poche volte che li trova li raccoglie proprio tutti: buoni e cattivi.»
Daniela proruppe in una risata fragorosa: immaginava quell’orso di Dario, che probabilmente non riusciva neppure ad allacciarsi le scarpe per via del ventre enorme, chinarsi fino al suolo, nell’atto di raccogliere funghi.
Quel quadro mentale che si era appena immaginata la faceva sbellicare dalle risa.
«Speriamo», continuò trattenendo una nuova risata che le stava nuovamente uscendo spontanea, «che non ne raccolga di velenosi allora!» E ricominciò a ridere.
«No, no, non l’ha mai fatto questo… non fino a questo punto, e poi c’è mio marito che controlla e tu sai quanto sa essere pignolo a volte. Comunque c’è poco da ridere carina perché questa sera la cena è proprio a base di ovoli freschissimi!»
«Non vorrai farmi questo» continuò ridendo Daniela, «no, non lo puoi proprio fare! Con quell’orso che raccoglie tutto…»
«Ti piacerà quello che sto preparando, e come ti piacerà!»
E Katia, che finalmente sembrava sul punto di finire la telefonata, concluse:
«Allora siamo d’accordo, niente scuse ti aspetto verso le otto!»
«E va bene, hai vinto: alle otto.»
Daniela stava quasi per riagganciare ma riuscì ad aggiungere al volo:
«Porterò una bottiglia di Bordeaux.»
Poi malvolentieri e sbuffando si diresse nell’ampia e bianchissima cucina, andò verso l’enorme frigorifero e lo aprì, rimirò l’involucro che conteneva il sushi che aveva pregustato e che quella sera sarebbe rimasto lì dov’era, infine, mestamente, richiuse.
Era di suo gusto quel cibo, e lei si era talmente appassionata a quella specialità gastronomica da fare ricerche, blande per la verità, sull’argomento; la cosa che le riusciva più sorprendente erano le circostanze banali attraverso le quali era stato creato (se era vera quella storia naturalmente); stava pensando alla nascita ufficiale del sushi che, da quanto aveva appreso in Giappone, sembrava risalire a inizio Ottocento, quando a Tokio uno chef ambulante utilizzò per la prima volta pesce crudo unito a riso acidulato, servendolo direttamente dalla sua bancarella.
Daniela uscì prontamente da queste considerazioni; a lei mangiare sushi piaceva davvero e tutte quelle teorie sulla sua nascita che andassero una buona volta e per tutte al diavolo, poi si diresse decisamente verso la scala interna che dalla cucina portava allo scantinato.
Il locale era in penombra ma non pensò neanche per un attimo di accendere la luce: quella bottiglia di Bordeaux si trovava nella rastrelliera dei vini, sempre al solito posto, sull’ultimo ripiano e non era la sola di quella marca: ce n’erano una mezza dozzina; le avevano acquistate lei ed il marito proprio nella zona di produzione due anni prima, in un indimenticabile viaggio in Francia.
Prese la bottiglia e si avviò verso la scala quando il telefono riprese a squillare. Lasciò il vino su un ripiano, non voleva correre rischi, dovendo correre su per i gradini per rispondere. Arrivò, per la seconda volta quel giorno, ancor più ansimante della precedente per via della corsa al telefono, pensando banalmente che non c’è due senza tre e sollevò il cordless.
«Ciao mamma!» La voce di sua figlia le regalò una bella sensazione, succedeva sempre quando parlava al telefono con Cristina.
«Ciaooo, come va bambina!» La ragazza rispose con insofferenza:
«Mamma! Lo sai che non mi va sentirmi chiamare così… mi fa sentire come una scema, scusa ma è quello che provo quando lo dici… per piacere.»
«Va bene, d’accordo, non lo dirò più… lo sappiamo tutti che sei grande… cosa c’è? Qualche problema?»

Daniela conosceva profondamente sua figlia e quel particolare tono di voce non la ingannava: faceva presagire, non tanto vagamente, una richiesta.
«No figurati, non è proprio un problema, c’è solo che questa sera io e Alessio dovremmo andare ad una importante cena offerta dalla sua azienda… sai quel progetto a cui lui ha lavorato per tanto tempo… insomma l’affare è andato a buon fine e non possiamo mancare. Ma il favore che ti sto chiedendo è molto più impegnativo: sempre per quell’affare lui deve recarsi quattro giorni ad Amsterdam per perfezionare il contratto e mi ha chiesto se lo accompagnavo! Mi ero fidata di quella stupida tata che poco fa mi telefona dicendo che ha la febbre e che il medico le proibisce di uscire da casa. Figuriamoci! Se anche potesse uscire io la farei stare vicina alla mia bambina! Lei e tutti quei germi!»
«Ho capito!» Rispose Daniela, «dovrei sostituire la tata questa sera e poi per quattro giorni interi, vero?»
«Sì mamma… mi dispiace ma non so a chi altro chiederlo.»
“Ecco”, pensò immediatamente Daniela, “ecco la scusa”, no, ma che scusa, è un contrattempo reale, lo dirò a Katia e mi scuserà. Intanto aveva già pensato al sushi che avrebbe portato con sé, a casa della figlia.
«Certo che verrò cara, dimmi solo l’ora.»
«Per le sette mamma, sei un tesoro… ah… ricordati di portare qualcosa per rimanere tutti quei giorni… conosci la drammatica situazione del mio frigorifero!»
Poi Cristina riagganciò.
Daniela non posò neanche il ricevitore e premette il tasto nove: era la selezione veloce del numero di telefono di Katia.
«Pronto! Ah… sei tu?»
«Sì, sono desolata ma questa sera devo andare da mia figlia per stare con la mia nipotina che la tata ha piantato in asso all’ultimo momento… mia figlia e mio genero hanno una cena di lavoro importante e non possono assolutamente mancare, inoltre devo stare con la bambina quattro giorni filati perché… be’ ti spiegherò meglio al ritorno.»
Daniela lo disse tutto d’un fiato, quasi volesse, inconsciamente, liberarsi al più presto da quell’impegno che non l’aveva attirata sin dall’inizio.
«Oh… no! E pensare che stavo preparando tutto! Sapessi cosa perdi… Sai cosa faccio? Ti rimpiazzo con l’orso Yoghi, non è il massimo ma c’è tanta di quella roba…»
«Benissimo! E scusami ancora», rispose Daniela sollevata mentre riponeva il ricevitore. Intanto immaginava la scena spassosa, con quei tre mangiatori di funghi fanatici, a tavola, alle prese con tutti quegli ovoli freschi cucinati.
Arrivò puntuale a casa della figlia, abbracciò subito la nipotina che l’aspettava impaziente sussurrando, con aria di mistero, nel suo orecchio in miniatura:
«Sai cosa mangia la nonna questa sera?»
«Cooosa??» Rispose la bambina spalancando gli occhi.
«Sono sicura che non lo indovini… comunque non ti voglio tenere in sospeso: pesce crudo!».

Quattro giorni dopo Daniela, di notte, ritornando in auto a casa sua, passò davanti alla villa dei suoi vicini e si ricordò della cena mancata. Pensò anche a quei bellissimi giorni passati tra mille giochi con la sua nipotina e a quel sushi delizioso della prima sera.
La mattina seguente, all’alba, fu svegliata improvvisamente da una sirena e si rizzò di scatto spaventata, sembrava quasi che quel suono si dirigesse esattamente verso il suo letto; ma era solo l’effetto della sveglia improvvisa.
Dopo aver riacquistato un minimo di lucidità, si rese conto che l’autoambulanza, perché era di questo che si trattava, si era fermata, continuando a suonare ferocemente, poco distante dalla sua villa.
Poi fortunatamente quel suono insopportabile cessò, per poi riprendere a suonare poco dopo mentre, si capiva dal rumore sempre più fioco, si stava allontanando.
Finalmente lei si poté sdraiare nuovamente.
La mattina fu svegliata ancora e questa volta da un brusio insistente: erano le voci di molte persone che parlavano.
Tutta quella gente doveva essere giù in strada… vicino alla sua abitazione.
Si alzò rabbrividendo, indossò la vestaglia, poi aprì le imposte della camera e notò gruppi di persone che discutevano concitatamente tra loro.
“Ma cos’era successo?” si chiese, era decisamente insolito… “tutta quella gente per la strada!” si ripeté confusa.
Indossò velocemente l’abito della sera precedente che aveva lasciato su una poltrona, si sistemò in fretta e furia il viso e uscì, dirigendosi rapidamente verso la piccola folla.
Conosceva più o meno tutte quelle persone e chiese subito che cosa fosse successo.
Le rispose un uomo che conosceva solo di vista:
«Oh, signora che disgrazia, ma che disgrazia!»
Daniela sbiancò e lo incalzò rudemente:
«Insomma mi vuol dire per piacere cosa è successo?»
«I suoi vicini signora, i coniugi Bianchini e poi il loro amico il signor Dario… oh che disgrazia! Li hanno portati via d’urgenza ma poi…»
A questo punto l’uomo capì, dall’espressione della donna, che non poteva tirare più per le lunghe quella conversazione e disse quasi gridando:
«Tutti morti, adesso si trovano nell’obitorio dell’ospedale. Colpa dei funghi, anzi solo un fungo può provocare una morte così… lasci dire… io me ne intendo… c’era senz’altro una tignosa tra quegli ovoli, si è confusa tra di loro. E pensare che il signor Bianchini me li aveva fatti vedere la mattina stessa in cui li aveva trovati: le assicuro che erano bell…»
Daniela non lo stette più a sentire, barcollò e impallidì in modo impressionante, le persone vicine fecero per sostenerla ma lei si divincolò e si mise a camminare, anzi quasi a correre verso l’edicola-libreria all’angolo.
Arrivò senza fiato e disse senza mezzi termini all’uomo dietro al vetro:
«Quella!» Accompagnò il suono deciso della sua voce con l’indicazione perentoria di un punto preciso tra i giornali.
Si trattava di una rivista sui funghi che lei aveva notato qualche giorno prima, quello dell’incontro con la ormai povera Katia e ricordava anche di averle detto:
«Ecco un regalo che potresti fare a tuo marito», indicandole l’oggetto.
Rammentava esattamente anche la sua risposta:
«Oh, quello! Li conosce come le sue tasche i funghi, sarebbe capace di offendersi.»
La donna quasi strappò la rivista dalle mani dell’edicolante (o del libraio, sarebbe da accertare), si girò bruscamente voltandogli le spalle e la posò sul banco quadrato centrale ricoperto di libri, usando quest’ultimi come appoggio; poi cercò ansiosamente nell’indice la voce: “FUNGHI VELENOSI”.
Sfogliò le pagine nervosamente e finalmente lesse:

Nome Latino: Amanita phalloides

Nome Volgare: Amanita falloide-Tignosa verdognola

Commestibilità: “È il fungo mortale per eccellenza. Una quantità di cinquanta grammi può essere fatale. Le confusioni possono verificarsi quando si crede di aver raccolto un ovolo buono ancora racchiuso nella sua volva, oppure…”


COL CAPPELLO SIAMO PARI

Il chilometro di passeggiata all’andata sommato agli ottocento metri del ritorno, cominciarono a farsi sentire nella camminata di Claudia. Il caldo soffocante di quel pomeriggio di luglio le diede, infine, il definitivo colpo di grazia: proprio quel minimo che bastava per abbattere la sua resistenza di sessantacinquenne in sovrappeso.
Eppure le era piaciuta quella passeggiata lungo la strada che costeggiava il lago: su un lato il bosco di conifere, sul lato opposto la superficie verdissima e piena di sfumature dell’acqua, con gli uccelli acquatici che sfrecciavano sulle onde sempre più su, fino a lambire i ciottoli bianchi della spiaggia.
Ora Claudia avvertiva solo stanchezza e certi giramenti che non preludevano a nulla di buono… poi, con il minimo di lucidità che le era rimasto prima dello svenimento, ebbe l’accortezza di lasciarsi scivolare dolcemente al suolo, evitando così una caduta certamente rovinosa.
La sua amica Sonia, che le camminava di fianco, non si era accorta del suo malessere e quell’afflosciarsi improvviso dell’amica la mise nel panico; le altre quattro donne della compagnia erano talmente spaventate da non essere di nessun aiuto, vista la paralisi momentanea che le aveva colte.
C’era un uomo però con loro, uno solo: si chiamava Anselmo Perini.
Non si poteva definire esattamente una persona di bell’aspetto: era un uomo di sessantotto anni, allampanato e ossuto. Due minuscoli occhi neri sbucavano pungenti sotto una fronte bassa e rugosa. I capelli erano scuri e perennemente impomatati. Le sopracciglia e i baffi sottilissimi erano grigi, sopra svettava un naso affilato e leggermente aquilino. Indossava un completo di cotone beige ed un cappellino tipo baseball dello stesso colore con una strana scritta in lettere maiuscole bianche: “FIBS”. Faceva uno strano effetto tutto quel beige poiché non differiva di molto dal tono di colore del suo viso, gli conferiva, infatti, un aspetto desolatamente uniforme.
Emerge quindi, da questa accurata descrizione, un uomo dalla presenza tutt’altro che attraente; tuttavia il suo intervento fu provvidenziale, evidenziando, se non altro, una sagace organizzazione personale: degna di un turista perfetto. Si fece largo tra tutte quelle donne inebetite, estrasse dal suo zainetto un minuscolo termos che conteneva dell’acqua, versò un po’ di liquido fresco sul fazzoletto immacolato che gli spuntava dal taschino della giacca e tamponò con cura le tempie di Claudia. Quando la donna cominciò a riprendersi, le fece bere un sorso d’acqua, infine l’aiutò a rialzarsi e, sostenendola per un braccio, le fece riprendere lentamente il cammino. La sua amica Sonia, rinfrancata dal comportamento deciso dell’uomo, le si mise al fianco prendendola per l’altro braccio, così, con quella sorta di triade traballante in testa, il gruppo di anziani gitanti, che davano piuttosto l’idea di sopravvissuti ad una catastrofe, raggiunsero finalmente l’hotel.
Il Perini, appena avvistò una poltrona di vimini (una delle tante che stavano fuori dall’ingresso all’ombra dei tendoni), vi appoggiò delicatamente il corpo esausto e accaldato della donna che aveva, si fa per dire, appena salvato. Poi Claudia fu assistita dalle amiche e dell’uomo si persero momentaneamente le tracce. Qualcuna delle soccorritrici disse di averlo sentito dire ripetutamente: «Il mio cappello! Il mio cappello!» e di averlo visto dirigersi velocemente verso la strada del lago, quella che il gruppo aveva, drammaticamente, appena percorso in senso inverso.
Claudia stava sorseggiando la bevanda che le era stata prontamente portata. Si era ripresa e le compagne erano ritornate nelle loro camere, invece lei aspettava ostinatamente il ritorno dell’uomo che l’aveva aiutata, guardando con impazienza il lago.
Il suo viso era ancora liscio e sorprendentemente privo di rughe, mentre lo sguardo, attraverso l’espressione giovanile dei suoi occhi castani, esprimeva una dolce e ferma compostezza. I capelli scuri ondulati facevano intravedere striature bianche e regolari che non disturbavano affatto l’insieme di quel volto ancora giovane. Ma quello che colpiva veramente in quella donna, erano le mani: lisce, con le dita affusolate e le unghie perfette. Si potrebbe concludere che, vista la sua età e tutti i problemi che affliggono le estremità degli arti superiori nelle persone anziane, quelle mani possedessero una bellezza immutabile. Alla fine la sua pazienza fu premiata e il signor Perini apparve finalmente nel sentiero che conduceva all’hotel. Erano soli, sotto quel tendone dell’ingresso, e l’uomo dopo un: «Posso?», si sedette pesantemente sulla sedia vicina a Claudia, che gli disse subito:
«Non so come ringraziarla signore, se non fosse stato per lei!»
L’uomo la interruppe:
«Mi chiamo Anselmo Perini, mi chiami Anselmo!»
«Come vuole…» rispose Claudia che nemmeno ci pensava e continuò: «Come posso sdebitarmi?»
Intanto non poteva non notare e non senza un certo disgusto, l’unghia del dito mignolo della mano destra che il suo interlocutore ostentava: era una vera e propria lama con l’estremità a punta, mentre le altre unghie erano di lunghezza assolutamente normale.
L’uomo, sudato e ansante, rispose dopo una breve esitazione:
«Si ricorda del mio cappello?»
«Come?!» rispose sorpresa la donna,
«Sì, il mio cappellino beige con la scritta»
Claudia, sempre più interdetta rispose:
«No, mi scusi… ma il suo cappello proprio non…»
«Be’, non importa» rispose il Perini, «fatto sta che durante il suo salvataggio l’ho perduto!»
«Oh! Mi dispiace moltissimo» rispose la donna e continuò:
«Ha provato a ritornare? Non è molto distante il punto dove…»
«Già fatto, sono appena rientrato, del cappello nessuna traccia!» rispose l’uomo che, dopo un breve pausa, fissando il vuoto e lisciandosi una manica della giacca disse tutto d’un fiato:
«Ecco… stavo pensando… se si vuole proprio sdebitare potrebbe farmi un regalino… comperarmene uno nuovo» e dopo aver detto in fretta e con un certo imbarazzo queste parole, rifugiò lo sguardo sul terreno erboso.
Claudia rimase, a dir poco, perplessa, “ma guarda che tipo” pensava, “che faccia tosta, chiedermi di comperargli il cappello!” Comunque ricompose la sua espressione attonita e disse:
«Va bene… se è questo che vuole… e adesso mi scusi, salgo nella mia camera.»
L’uomo si alzò prontamente accennando un goffo inchino e rimase impalato in quella posizione fissando la donna che spariva nell’ingresso dell’hotel.

Claudia era appena uscita dalla doccia e si stava preparando per la cena.
Guardò di sfuggita il minuscolo orologio d’oro da polso sul comodino per valutare il tempo che le rimaneva prima di vestirsi e truccarsi: “bene”, pensò, “c’è tutto il tempo”.
Indossò l’accappatoio bianco e se lo strinse alla vita con un sospiro: doveva dimagrire, assolutamente! Il malessere del pomeriggio era un chiaro avvertimento, non poteva ignorarlo, e si impose di perseguire i soliti buoni propositi alimentari.
Uscì così com’era sul balcone, dopo aver attraversato la sua stanza arredata con mobili in stile e calpestando, tra scricchiolii di diverse tonalità, il pavimento in legno di ulivo.
Il suo alloggio lungo si trovava all’ultimo piano dell’hotel e aveva, appesi al lungo balcone, su tutto il fronte, una serie di vasi colmi di gerani rosa bellissimi.
Osservò, appoggiando le mani alla ringhiera e respirando a pieni polmoni, il bosco di pini secolari e tigli, poi il lago al tramonto, infine le guglie svettanti del gruppo del Brenta, immaginando un panorama ottocentesco con poeti e letterati che si avventuravano verso quei monti del Trentino su carri sgangherati trainati da robusti buoi.
Poi, continuando a fantasticare e sempre ispirata da quel paesaggio incantevole, fece questa riflessione (frutto delle sensazioni che la stavano dominando): “l’intero quadro, più che uno scenario alpino ricorda qualche immaginario paesaggio di un grande pittore del passato…”
Le sue astrazioni furono bruscamente interrotte dalla comparsa di una figura che, in quel momento, costituiva un vero e proprio corpo estraneo in quel quadro bucolico; all’inizio non riconobbe nessuno in quella sagoma, poi la mise a fuoco: era il Perini che si sperticava in ripetuti cenni di saluto. Aveva cambiato abito, ora indossava un completo scuro, per questo non l’aveva riconosciuto.
Ricambiò fugacemente il saluto e rientrò scocciata: quell’entrata in scena maldestra aveva spazzato via, in un attimo, tutto l’incanto della sua contemplazione.

Il giorno seguente, nel vicino paese, si teneva, per buona parte della giornata, il caratteristico mercato settimanale; la mattina, Claudia decise di prendere il piccolo bus dell’hotel per acquistare quel benedetto cappellino.
Tra la folla trovò finalmente il banco che le interessava e cominciò a passare in rassegna tutti i modelli di copricapo; non dovette cercare molto perché, quasi davanti a lei, si materializzò il cappellino descrittole dal Perini con addirittura la stessa scritta!
Il colore era però marrone. Chiese se ne avevano uno di colore beige ma si sentì rispondere dal commerciante che quello era l’unico rimasto, la settimana precedente era stato venduto il modello di colore beige ad un uomo, presumibilmente un villeggiante.
Lei lo acquistò e chiese, con curiosità tutta femminile, cosa significasse quella scritta.
Il mistero fu subito svelato: “FIBS” era l’acronimo di “Federazione Italiana Baseball Softball”. Soddisfatta per l’acquisto e impaziente di liberarsi di quel debito assurdo, appena fu di ritorno all’hotel si sedette fuori dall’ingresso. Non dovette aspettare molto perché il Perini, quasi fosse appostato, le si presentò improvvisamente davanti ripetendo il consueto «Posso?»
«Certo signor Perini, certo!» rispose Claudia e aggiunse: «A proposito le ho trovato quel cappello che mi diceva…»
Intanto dalla borsa estrasse un sacchetto di plastica dal quale, subito dopo, emerse il cappellino.
Alla vista dell’oggetto l’uomo balzò in piedi visibilmente emozionato e con entusiasmo gridò:
«Ma è uguale a quello che ho perduto! Come ha fatto a trovarlo! Grazie, grazie» e subito se lo ficcò in testa.
«Be’ proprio uguale no… ricordo che il colore nella sua descrizione era beige, ma questo era l’ultimo rimasto», disse la donna e aggiunse con tono perentorio:
«Ecco signor Perini, col cappello siamo pari!»
L’uomo la guardò incerto, come non avesse capito il significato della frase, restando impalato di fronte a lei.
Claudia non gli lasciò il tempo di riprendersi, aveva fretta di liberarsi di quello strano tipo che le aveva imposto quell’impegno a dir poco stravagante e alzandosi disse:
«Bene, ci siamo sistemati… ora la lascio, mi devo preparare per il pranzo.»
Detto questo, si voltò ed entrò nell’ingresso dell’hotel.
Il Perini si diresse lentamente verso il lago assorto.
La sua mente seguiva, invariabilmente, percorsi lineari e ripetitivi. Era una persona incapace di modificare, seppur minimamente, il suo elementare modo di pensare: se qualcosa di negativo gli era successo, ci doveva essere una causa e se esisteva una persona responsabile, anche indirettamente, del danno che aveva subito, lui si sentiva in credito e doveva essere assolutamente risarcito. Questi meccanismi mentali, alquanto originali, procuravano nel suo prossimo un immediato disorientamento che si tramutava successivamente in un sentimento di forte antipatia.

Anselmo Perini agiva quindi in perfetta buona fede seguendo la sua natura e non era assolutamente in grado di capire le reazioni di chi lui considerava, senza ombra di dubbio, debitore nei suoi confronti. A parte questi aspetti originali o, se si vuole, primitivi del suo carattere era, tutto sommato, un uomo semplice e, a modo suo, generoso.

I giorni seguenti, gli ultimi della vacanza, Claudia non poté fare a meno di notare, e non senza una certa preoccupazione, la presenza costante del signor Perini.
Se lo trovava intorno dovunque andasse: in piscina, nel parco, sul lago…
Lui si era fatto addirittura cambiare posto a tavola nel ristorante: era riuscito a farsi spostare in un posto strategico, abbastanza vicino al suo tavolo e in una posizione ideale per osservarla di fronte. Ogni volta che i loro sguardi si incrociavano, lui sorrideva e accennava un inchino con il capo.
La donna non ne poteva più di quella presenza asfissiante e, rassegnata, contava i giorni che mancavano alla partenza. Pensare che quella vacanza la sognava tutto l’anno e ora per colpa di quell’individuo… cercò comunque di non vederla in un modo così negativo, la sua natura, del resto, era estroversa e ottimista.
Sorretta quindi dal suo buon carattere arrivò alla fine del soggiorno soddisfatta e ritemprata. L’ultimo giorno, nel pomeriggio, stava giocando a carte, fuori dall’ingresso, con la sua amica Sonia, quando la sua compagna di gioco le sussurrò imperturbabile e a denti stretti: «Attenta! Sta arrivando!» «Chi? Cosa?» chiese sorpresa Claudia, «il tuo spasimante… il Perini!» concluse Sonia; non poteva continuare, poiché l’uomo, implacabile e silenzioso come un rapace, era già alle spalle della sua amica.
«Signora Claudia!» La voce del Perini la fece sussultare, anche se aveva alla fine capito quello che l’amica le aveva discretamente sussurrato.
«Le dovrei parlare… se possibile.»
Allora Claudia spazientita e senza neanche voltarsi gli disse seccamente:
«Adesso, come vede, non posso!»
Ma l’uomo non se ne andò come lei sperava e disse laconicamente:
«Mi scusi tanto… aspetterò.» e si sedette poco distante.

Claudia guardò la sua amica indispettita pensando alla cocciutaggine di quell’uomo: ma cosa voleva… ma sì, cosa volesse era chiaro, anche se lei si rifiutava di pensarci. Era già difficile giocare a quel gioco uruguaiano… quel “burraco” diabolico, i mazzi di carte francesi, il fatto che aveva imparato da poco e tutto il resto… insomma non aveva bisogno di essere infastidita in quel momento.
Il gioco si protrasse ancora per una buona mezz’ora poi finalmente, dopo aver già fatto un burraco e raccolto uno dei mazzetti, Claudia rimase senza carte in mano.
Aveva finalmente vinto con Sonia ed era la prima volta!
Si ricordò allora del Perini e, voltandosi, lo vide pazientemente seduto in attesa.
La sua amica, ad un suo impercettibile cenno, raccolse le carte, la salutò e li lasciò soli.
«Allora cosa mi doveva dire?» lo aggredì spazientita Claudia.
L’uomo si levò qualcosa di microscopico o inesistente dalla manica della giacca beige, si tolse il nuovo cappellino marrone e disse:
«Signora, da quando l’ho vista la prima volta io… insomma…»
Non riuscì a terminare, il suo imbarazzo era evidentissimo, ma subito si rianimò e proruppe timidamente:
«Ecco… le volevo fare un regalino…» e intanto si alzò in piedi davanti a lei.
Claudia era a dir poco sbigottita ma fece in tempo a notare la mano destra del Perini racchiusa a pugno e ficcata nella tasca della giacca… evidentemente stava stringendo qualcosa di estremamente piccolo.
Dopo un attimo di disorientamento la donna si riprese e rispose con voce ferma:
«Senta signor Perini, come le ho detto l’altro giorno lei non mi deve più niente! Le ripeto che col cappello siamo pari e sia finita qui!»
L’uomo rimase immobile, sbiancò e, dopo aver deglutito, si rimise il cappellino. Poi mormorò disorientato:
«Mi scusi signora ma… no, no… mi scusi ancora.»
Dopo aver pronunciato a stento queste poche parole il signor Perini si voltò rigidamente e si incamminò, leggermente ingobbito, verso il lago.
Claudia lo vide sparire in fondo al sentiero, soddisfatta di aver posto fine a quel colloquio increscioso.

Il giorno dopo, lei, si trovava sul bus che l’avrebbe purtroppo ricondotta nella sua città e alla solita vita.
Era seduta sul lato corridoio e nel posto accanto c’era la sua amica Sonia che, mentre guardava dal finestrino sparire tra la vegetazione l’hotel, diceva le solite cose che diceva invariabilmente tutti gli anni alla partenza:
«E anche quest’anno mia cara, le vacanze…»
Ma Claudia non la stava ascoltando, sul lato sinistro, una fila più avanti, vide, appoggiata sulla sponda del sedile, l’estremità della manica di una giacca di cotone color beige, da cui spuntava una mano che aveva l’unghia del mignolo esageratamente lunga.
Su quel dito c’era infilato, ostentatamente, un anello d’oro, con un minuscolo brillante sulla sommità.

[continua]


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