Aprile di fiori

di

Maria Grazia Ferraris


Maria Grazia Ferraris - Aprile di fiori
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
14x20,5 - pp. 50 - Euro 7,50
ISBN 978-88-6587-3618

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La copertina Il fior di cotone (Erioforo)


Opera finalista nel concorso letterario J. Prévert 2009 finalista nel concorso letterario J. Prévert 2009


La foto di copertina riporta ai fiori, i protagonisti di questa piccola raccolta di poesie.
In primo piano una grande distesa di prato magro, d’alta montagna, punteggiata da fiori bianchi, piumosi, gonfi, bioccolosi come il cotone, è una distesa di eriofori, altrimenti chiamati Pennacchi di Scheuchzer o Piumini.
Si trovano con una certa frequenza negli acquitrini, nelle paludi e nelle torbiere in alta quota da noi, in Italia settentrionale. I frutti, erroneamente chiamati fiori, sono formati da un’unica spiga quasi sferica, sempre eretta che persiste a lungo dopo la fioritura, come un vistoso morbido fiocco di cotone, con sete bianco-lanose. Da qui il suo nome volgare, il fior di cotone.
La donna di lato accoccolata e sorridente tra i fiori, decentrata, ai margini del paesaggio, sono io.
Una inquadratura voluta: non al centro, non presuntuosa, una presenza laterale nello scenario affascinante per sé, come si addice ai paesaggi e alle liriche orientali cui mi riporta, di grande suggestione.
La lontananza temporale ha portato via anche i colori di quella giornata felice.
Una giornata felice, potrebbe essere il titolo, quando una gita, un paesaggio, un fiore strano, inconsueto, ti inducevano al sorriso, al godimento, all’abbandono, al divertimento.
Il tempo si fermava, immobile. Era quello dell’otium, del sorriso, della calma, felice riflessione.
In questa fotografia sorridente e giovane c’è amore ed amicizia, sentimenti che maturano lenti e che sono il frutto di una vita, momenti di complicità, di pace, almeno per un momento, condivisi.
Poi anche i resistenti fiori di montagna sfioriscono.

G. Ferraris


Presentazione

Mi riconosco nelle parole di Paolo Maccari che dice (presentando una raccolta, non mia!, di poesie):

“I poeti tardi, in un certo senso, sono poeti in pensione: non si sentono più in obbligo di lavorare: rispetto alla società, o alla società letteraria, hanno pagato il loro conto.
Senza più vincoli contrattuali con la propria storia, già formata, e con se stessi, già adempiuti,… possono viversi in una dimensione nuova, dove il tempo non è più scandito ma è insieme presagio e attesa… abitare l’attesa disattendendola è forse la loro missione… Si può riconoscere un’energia che non è quella di una scontata “nuova giovinezza”, ma piuttosto nella convivenza… di rinnegamento e leggerezza, di minuziosa autoauscultazione… maturità al di là della maturità, in un certo senso…”

Riconosco in queste parole il mio itinerario.
Ma non mi sento e non mi sono mai sentita una poetessa. Mi è antipatico perfino il suono di questa parola, prepotente, borioso, superbo, soprattutto al femminile!
La poesia, quando c’è, ha voce quieta e profonda, sommessa, viene da lontano.
Eppure, pur consapevole dei miei mezzi, che sono frutto di lettura e studio costanti, non tengo a freno il gusto di scrivere versi.
Talvolta hanno una spinta così prepotente ed autonoma che devo acconsentire, armarmi di carta e penna e provare a dare vita alla confusa agitazione che mi alberga, altrimenti la giornata è persa ad ogni altro lavoro.
Poi devono riposare questi figli inquieti, spesso dormire a lungo.
Quando li riprendo li guardo stupita, come non fossero miei e agito scalpello e lima.
Senza pietà. Miro all’asciuttezza e alla sintesi, pur nel fascino del dettaglio della memoria sempre incantata eppur fallibile.
Se resistono… c’è speranza.
Ed allora eccoli, raccolti nella mia seconda prova di stampa.
Sono poesie che si articolano intorno al tema FIORI, segnate dalla loro presenza (o assenza), il simbolo della stagione che si rinnova, ma anche dell’itinerario di una vita, alla ricerca del suo intimo significato.

M. Grazia Ferraris


Aprile di fiori


Aprile di fiori

Aprile è il più crudele dei mesi, genera
Lillà da terra morta, confondendo
Memoria e desiderio, risvegliando
Le radici sopite con la pioggia della primavera.
L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.
L’estate ci sorprese, giungendo sullo Starnbergersee
Con uno scroscio di pioggia.

(T. Eliot, La terra desolata)


Poesia

M’affascina la natura, – è poesia, –
– un dio vi spira, – dolce e lusingante.
Ma lotta è in me, ché esser non vorrei
d’un inevitabile nevrotico idillio
l’ingenua autrice: spingermi vorrei
al di là dell’idillio…, per attingere
dal drammatico nostro quotidiano
la chiave del vivere insensato.
Cercare l’armonia vorrei, saputa
della realtà sociale nostra franta
in faticosa discontinua prosa.
Morta la musica della poesia,
defunta la lirica della melodia,
pure l’armonia perduta cede il passo
al sogno: come di sirena il canto
fascinoso s’abbatte smemorato
sullo scoglio arido della vita.


Metamorfosi d’aprile

Marzo arido, ventoso, intrigante.
I rami rotti, secchi, spezzati, incerti:
la terra feroce, assetata, riarsa
urla in silenzio il suo dolore.
Il lago livido, chiuso, spento.
Divampano improvvisi verdi germogli,
sbocciano foglie come fiammelle là,
tra il seccume. Petali di melo
volano intorno; si rallegra
la terra risvegliata, giocosa, dimentica.
Un girotondo di candide farfalle.
Nuova vita ricomincia, spumeggiante
stupita e pacificata.


Taraxum officinale

Un fiore giallo a capolini, un globo
piumoso, vago e argenteo, lieve:
bambina, affascinata dalla forma,
“soffione” ti chiamavo, come la nonna
mite, che raccoglieva le tue foglie
giovani, commestibili, che il nonno
chiamava invece del “dente di leone”.
“Soffione” mi pareva nome più vero,
leggero, coi semi vivi nel giro
del vento, in corsa, incatturabili.
Leggeri come le parole alate
che giocano nell’aria, senza ansie,
come i semi che cadono lontano,
senza radici e senza saper dove.
Forse alcune smuovono la dura terra,
forse alcune radicano in terra fonda,
forse altre si lasciano alla fine catturare
per diventare davvero, finalmente
“denti di leone”.


Giacinti

L’intensità del profumo stordisce:
il fiore azzurro dalle bianche vene
è spuntato minuscolo dal bulbo
posato sul vaso di vetro a bocca
stretta, dove l’avevo posato
e distrattamente dimenticato.
La fioritura dei giacinti! Il mio
primo esperimento di botanica,
alla lontana scuola elementare.
Sette anni appena e un maestro che vuole
insegnarci “la botanica”!

Rivedo i vasi multiformi, i bulbi,
pendule radici, foglie carnose,
meravigliose infiorescenze: blu,
rosa intenso, bianco latte e violetti…
Incanto di colori, stordimento
di profumi acuti, densi, oleosi…

Ci racconta la storia di Giacinto,
il maestro, conteso da Febo Apollo
e Zefiro ventoso, e della morte,
dolce consolante metamorfosi.

Da allora mi porto in cuore due amori:
natura e i suoi incanti, cultura
ed il suo inesauribile fascino.
Sette anni, un maestro allegro, un giacinto:
radici lontane, inestricabili
misteriose degli amori infantili.


I bucaneve

Bianchi gli inverni della mia fanciullezza,
la neve s’adagiava silenziosa
sui prati intorno alla vecchia casa
dell’infanzia; acqua gelata in cortile,
nei secchi di stagno; al risveglio vetri
ricamati; calda la colazione,
sollecito il richiamo – caldo – materno.
Gelati i sentieri che portavano
al mulino. Solitario e violento
lo scroscio del ruscello nel silenzio
schiumante dell’invernale paesaggio,
gelata la collina, paradiso degli slittini giocosi.
Abbagliante la luce che candiva il lento pendio.
Inverni lontani, felici nel ricordo.

S’allentava il gelo, la neve fondeva…
Curiosi esploravamo il prato mutante
e incantato: microscopiche fossette
dietro il mulino svelavano timidi
bucaneve. Meraviglia imprevista,
felicità bambina. Terra e odori
di risveglio, forse di primavera.
Bucano il gelo i bucaneve a sfida.
Tutti bianco latte e verde dicono
la speranza: una vera festa,…
una gioia bambina.


La Magnolia

Aprile adolescente spumeggiava.
La strada per il liceo raggiungeva la città
tra ville e giardini risvegliati a sorpresa
dal primo sole allegro di primavera.
Spreco, profusione di colori squillanti,
i gialli soprattutto, i verdi teneri delle fogliette
appena nate, i bianchi dei ciliegi e i rosa
dei peschi che punteggiavano la collina,
i tronchi scuri, feriti dalle prime gemme,
i tepori invitanti all’evasione, al proibito.
I suoni della vita come la scena teatrale…

L’eterno risveglio, l’eterno ritorno,
improvvisamente si fa strada sicuro,
senza suoni di tromba, senza incertezze
e penetra dovunque – fuori e dentro – primavera.
Le magnolie in fiore… lucide, carnose,
bianche e rosate, cremose, rosse, dense,
morbide e levigate come la pelle, debordanti
dalle proprietà cintate e dai cancelli chiusi,
avvisi impliciti, effervescenze di gioia, libertà,
spazio creativo, un invito adolescente alla vita.
Infinite varierà di ibridi. Giardini incantati.

Le guardavo stupita, assetata di bellezza e di sole.
Stava finendo l’anno scolastico. Gli ultimi compiti,
le ultime interrogazioni, poi l’estate adolescente.
Più sognato che realmente e felicemente vissuto.
La felicità era in quel risveglio, in quello stupore,
in quell’attesa di non so che… Non lo sapevo
e il ricordo ingenuo ha un retrogusto amaro,
quello delle giovani occasioni sprecate.


Il ciclamino

Raggio di sole improvviso e violento,
come sovente nelle nostre terre
brumose e umide d’acqua di lago,
quasi incendia il grondante terrazzo
dopo una giornata di pioggia stanca.
Un rosso stonato, quasi impudico
nel verde ancor vivido delle piante
grasse, maliziosamente occhieggia.
È un ciclamino caparbiamente
sbocciato sul solitario balcone
da un bulbo invisibile e dimentico
interrato, solo, nella vaschetta
degli invernali eterni sempreverdi.
Nessun preavviso nei giorni passati:
non ricordo d’averlo mai piantato.
Il sole ottobrino l’ha risvegliato.
È fiorito a sfida: senza superbia,
ma impavidamente cocciuto.
Mi accusa: certo, troppo dimentico…
tempi, luoghi, cose che pure ho amato.
Interro e scordo… senza nostalgia,
senza alcun allarme. Oggi, un avviso:
saputa, penso che non solo i fiori
possono caparbi rifiorire.


Azalee

Rosa squillante e bianco lucido:
azalee fiorite nel giardino a fronte.
Fogliette rinverdite, timide, tenere.
Luce ed armonia, grazia vitale
a sfida, nell’aprile piovoso.
Vince la favola, la vita come festa.

Insiste da ore, notte e giorno, leggera,
la pioggerella impalpabile primaverile:
bruno il cielo, scialbo, uniforme,
vano, invisibile, muto, il lago.

Hanno già perso la loro brillantezza,
le eleganti azalee, ma insistono: forti
sperperano il loro messaggio di moritura
bellezza. S’acquietano i colori.
La favola bella, ahimè, tace.


Come le ortensie

Azzurre, blu, viola: ortensie magnifiche
nell’angolo ombroso, riparato
del giardino della mia vecchia casa…
fiore composto, scompaginato, in fuga,
i colori cangianti determinati
dal terreno, umile, che li alimenta:
sfidano l’armonia festosa, a palla,
sorridente icona, gonfia di primavera,
del giardino giapponese.
– cupole, infiorescenze, costruzioni
barocche, spreco di forme e di colori
sorrette da nere intercapedini,
come inquietanti radiografie –

Nome d’amore, Ortensia, una dedica
di felice botanico innamorato,
Ama-tsia, thè celeste, lavanda sacra,
per la statua del Budda immortale…
Belle siete, eleganti, anche appassite,
perdete un poco di colore solamente.

Anch’io vorrei essere così, bella,
anche se appassita e senza tempo.
Incantevoli cuffie colorate,
estivi ombrelli aperti, suggeritemi
quiete, ciò che basta per ripararsi
dalla vita che fugge.


Compleanno

Nessun palpito in questo vecchio nuovo
compleanno solitario e silente.
Nella casa quietamente amica e luminosa
solo l’azalea sontuosa, colori screziati
– tutta rosa e bianca – trabocca, quasi
impudica nel suo alto fastoso tripudio.
Si esibisce per sé, indifferente.

– Sei sempre bella – ha detto porgendola.
Sorrido all’ultima menzogna dell’età
disillusa, di verde ancora addobbata.


[continua]


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