Con questo racconto è risultato 7° classificato – Sezione narrativa nella XVI Edizione del Premio letterario Il Club dei Poeti 2012
Questa la motivazione della Giuria: «Massimo Martinelli, nel suo racconto, fa rivivere l’atmosfera meravigliosa del famoso incontro del grande Muhammad Alì, avvenuto a Kinshasa nel 1974. Con parole efficaci ed appassionate, Massimo Martinelli accompagna il lettore fino al momento in cui Cassius Clay iniziò a danzare come una farfalla, lasciando allibito il suo avversario. Coinvolgente al solo ricordo di quella sera indimenticabile» Massimo Barile
Rumble in the jungle. 30 ottobre 1974
Nostro fratello aspettava. Con la schiena alle corde aspettava incassando un colpo dopo l’altro. E l’avresti detto finito. Avresti detto – e molti, ma non tutti, lo dissero – che era la fine del Campione, che forse sarebbe stato meglio per lui non avere accettato la sfida.
Non è un buon segno – è risaputo – essere messi alle corde. A meno che…
Così nostro Fratello aspettò ancora, dando a tutti l’impressione di essere sul punto di crollare. Pochi altri colpi come questi – pensavamo tutti – ed è finita. Ma incassò anche quei colpi ed altri ancora, ben oltre la misura stimata fra i denti da gran parte di quelli che assistevano all’incontro, per la sua fine. E ancora non crollò. Già, perché essere messo alle corde non è un buon segno. A meno che…
Forse, a qualcuno, fra le migliaia di spettatori che assistevano all’incontro dagli spalti dello stadio Tata Raphael, a qualcuno dico, venne a quel punto in mente che sì, poteva davvero trattarsi di una tattica, di un piano pazzesco, pensato e preparato a tavolino.
Eravamo al settimo round, il caldo cominciava ad essere soffocante. Il sudore attaccava alla pelle le nostre camicie sgargianti. Molti erano quelli a torso nudo e le loro schiene scintillavano come scocche d’insetti. Dall’alto la scena doveva essere quella di un gigantesco formicaio in piena attività.
L’odore dei corpi si mischiava a quello della foresta, che al di là della rete di recinzione premeva per tornare in possesso del lembo di terra che le era stato strappato. E lui ancora non cadeva.
Qualcuno cominciò a pensare che quella fosse veramente una tattica.
Qualcuno che credeva veramente in lui e ci credeva oltre ogni misura. Perché non era un bello spettacolo vederlo lì, alle corde, sotto quella scarica di colpi, che ad un occhio attento però, erano sempre meno fitti.
In ogni caso la maggior parte di noi pensò: è finita. Il Campione è finito. E questo riempì i nostri cuori di rabbia e di amarezza. Perché anche se sul ring stavano battendosi due neri come noi, bè, per noi il fratello nero era uno soltanto. L’altro non era che un fottuto nord americano, arrivato in Africa soltanto per i cinque milioni di dollari messi in palio dagli organizzatori dell’incontro.
Poi suonò il gong, che voleva dire la fine della settima ripresa, e la gente cominciò a capire: osservando il nord americano seduto nell’angolo, esausto ed ansimante per tutti i colpi dati, cominciammo a capire che forse niente era ancora perduto. La speranza ci avvolse come una fresca brezza e ci innalzò sopra le cime più alte degli alberi, fino a farci scorgere di nuovo l’orizzonte. Il gong suonò ancora e cominciò l’ottava ripresa.
L’aria era pesante per via del caldo e dell’umidità, nonostante fosse mattino presto. Nostro fratello aspettava e noi capimmo in quell’istante cosa stesse aspettando: che l’avversario esaurisse le forze a furia di menare pugni.
Nostro fratello ha la schiena alle corde e cerca di ripararsi dai colpi ai fianchi e al volto. Indoviniamo il suo sguardo sotto le arcate sopraccigliari gonfie e sanguinanti. Anche le labbra sono tumefatte, ed il sangue schizza via insieme al sudore, ad ogni colpo.
Ad un certo punto, come una farfalla si stacca dal fiore, così lui si stacca dalle corde ed inizia a danzare.
Danzò leggero intorno all’avversario, come se nessuno dei colpi che aveva ricevuto nelle sette riprese precedenti fosse andato a segno. Come se ci fosse stato qualcun’altro e non lui, sotto quel martellante assalto, e lui fosse arrivato esattamente in quell’istante per farsi un giro di valzer. Non fresco come una rosa, certo, ma pronto e deciso dietro la maschera di sangue e lividi.
Ad un certo punto, come una farfalla tra i fiori, prese a danzare intorno al nord americano, ma più vicino. L’avversario non amava danzare, lo si capiva dalla smorfia sul suo volto, una smorfia che aveva messo su all’inizio dell’ottava ripresa quando nostro fratello era saltato in piedi dall’angolo senza alcun problema, una smorfia che non voleva andarsene. L’avversario era più il tipo spaccatutto: gli piaceva colpire. Decisamente non amava quei passi da ballerina.
Nostro fratello invece era nato per la danza. Si muoveva sul ring con una leggerezza ed una precisione che avevano a che fare con la magia. E quella magia ci incantò. E incantò anche il suo avversario, che stordito, cominciò ad incassare i colpi rapidi e precisi del danzatore. Quei colpi noi li scorgevamo appena; li vedevamo forse arrivare a segno, ma non li vedevamo partire. Nostro fratello danzava nell’aria profumata e calda del primo mattino e danzando, abbatté il suo avversario.
Io ero lì quel giorno. Ero uno dei centomila che in quell’afoso mattino di fine ottobre del 1974, dagli spalti dello stadio Tata Raphael di Kinshasa, avevano gridato: ALÍ, BO-MA-YE! Alì, uccidilo!
Massimo Martinelli