Opere di

Simone Cerri

“Italian tabloid” prende ispirazione nel titolo dal celebre capolavoro di Ellroy “American tabloid” ed infatti (mooolto alla lontana) vorrebbe essere una traslitterazione del più cupo noir americano… all’italiana. Laddove nell’originale vi sono cinici poliziotti triplogiochisti e fighissimi qui ci sono modesti piedipatti che mirano alla pensione e a fare le vacanze a Ischia, laddove vi sono boss spinti da una cattiveria ed una cupidigia senza limiti, qui ci sono grotteschi capo banda con caratteristiche talmente assurde da non potere essere odiati davvero e racket come quello delle tombole famigliari, laddove ci sono killer granitici e senza esitazioni, qui ci sono scagnozzi con problemi piliferi che causano complessi, o che si esprimono a monosillabi. E se l’humus del capolavoro di Ellroy è quello delle spie, degli anti castristi, del gabinetto del Presidente, dei grandi imprenditori che muovono la politica internazionale, degli ex agenti di qualche sigla imprecisata ora al servizio di non-si-sa-più-bene-cosa, qui vi sono invece taxisti juventini, baristi – informatori, albergatori sabaudi, palazzinari in cerca di fama, giornalisti infidi, magistrati con vizietti innominati, funzionari pigri, cugini schizofrenici e via dicendo. Insomma laddove c’è il noir qui c’è l’umorismo, e laddove c’è l’America qui c’è l’Italia. Una realtà molto meno “big” dove tutto è in fondo “de noaltri”, dove niente in fondo funziona davvero, e dove le persone sono mosse da ambizioni molto più limitate. Ma magari si fanno ammazzare per amore della propria squadra di calcio, o per il danno causato al carrello dei lessi preparato dalla moglie, e riescono con astuzia e perseveranza a uscire dalle situazioni più difficili e apparentemente senza via di uscita, come il protagonista della storia. Ma che sono poi pronti a rovinarsi con le proprie mani, e a mandare tutto all’aria, davanti ad una pasta fumante (condita magari da una partita di calcio) oppure appena vedono una bellissima ragazza. In poche parole… sono italiani. Si tratta certo di un libro di accusa umoristica e surreale contro tanti archetipi del nostro paese… ma anche di un… “atto dovuto”. Come diceva Mario Tobino; “L’Italia è bella, è fatta di uomini bizzarri e di eroi”.


La storia narra le vicende di un contabile della mala che, in seguito ad una leggerezza, si trova braccato dai suoi pericolosi clienti:


Mentre attraversava la strada e rifletteva sui vari scenari che ora si aprivano davanti a lui, si sentì molto stupido per non aver dato retta, a suo tempo, ai consigli che il babbo gli dispensava ad ogni pranzo natalizio oramai da vent’anni: “Scegliti una professione meno pericolosa…chessò il cosmonauta, il Pontefice corrotto, il killer per il catasto o l’ammaestratore di vipere”. E invece lui era andato avanti per la sua strada.


Lui aveva scelto di fare il contabile della malavita. A onor del vero non è che gli fosse andata male per anni…anzi! Però quanti rischi, e soprattutto che fatica! Tutte le volte che un cliente entrava nel suo studio doveva verificare che fosse veramente un malvivente, controllando il casellario giudiziale. Magari si sentiva pronto per dare una consulenza o una risposta, ma se il cliente era una persona onesta, lui doveva scrollare le spalle ed indicare con fare sconsolato il cartello: Dott.Mario Civetta, Contabile della Mala. E rispondere con la frase di rito: ”Mi dispiace ma il mio è uno studio serio”.


E poi c’era quel penoso obbligo di indossare cappotti inguardabili. Questo non era in realtà un obbligo vincolante, però nell’ambiente della malavita ogni contabile che si rispettasse indossava un cappotto tanto più vistoso quanto più i suoi clienti erano criminali importanti. E negli anni lo studio del dottor Civetta aveva acquisito criminali di un certo spessore. Era una specie di divisa ufficiosa insomma, come i tatuaggi per un legionario, le pulci per un barbone, il colore della giacca per un cameriere o gli adesivi sull’auto per un sudamericano. Come tutte le uniformi che si rispettano aveva i suoi gradi; si passava dal semplice cammello – blazer (corrispondente al grado di praticante) per passare ad un tweed abbondantissimo con inserti in sughero per finire su su fino al suo, quello che certificava lo status di revisore ufficiale dei conti della criminalità: fenestrato grisaglia con collo di pelo irsutissimo, martingala in osso ed interno damascato. Un onore che pochissimi potevano vantare, solo quelli cioè che potevano spendere ed utilizzare l’appellativo di “U’ cuntaturi”. Certo, ora che stava scappando quel cappotto naturalmente non lo aiutava a passare inosservato, perché la sua funzione era l’opposto, voleva essere un richiamo, un messaggio in codice per tutti gli addetti ai lavori, mirata come una pubblicità su di una rivista specialistica. Ma Mario non si sarebbe sbarazzato tanto facilmente di quel cappotto così faticosamente guadagnato….


...Di tutti i malviventi singoli e clan che facevano riferimento alle sue consulenze due erano i più importanti, quelli più coinvolti e quindi (ora) quelli più pericolosi per Mario, ovverosia le bande capeggiate da Johnny Capesanta e da “Il Marsigliese”. Il primo si chiamava così perché a colazione mangiava sempre assieme al caffè due capesante, e così faceva dopo pranzo e dopo cena, ed in altri innumerevoli intervalli gastronomici giornalieri che si concedeva. Lo faceva perché aveva letto da qualche parte (ma dove?) che faceva bene, e a chi gli chiedesse maggiori informazioni scientifiche rispondeva facendo una caricatura volgare di una pubblicità di qualche anno fa: ”Fa bene qua…e fa bene qui” toccandosi prima la fronte e poi il sacco perché. Violento e irascibile aveva fatto i soldi con i combattimenti clandestini tra filippini sul litorale romano. In seguito era passato ai combattimenti tra animali; cani, galli, piccioni, armadilli, toporagni e anche le tenie, ma per queste ultime aveva dovuto smetterla perché per il combattimento era necessario che un poveraccio si facesse bombardare di raggi Roentgen (dopo avere ingerito due tenie colorate diversamente) mentre gli altri facevano le loro puntate. Dopo un mese di combattimenti il poveretto era un avvizzito, glabro, senza denti, e mezzo sterile. Anche se ben pagato ci fu ben presto penuria di questi personaggi ed il combattimento tra tenie finì, ma in compenso cominciò quello tra specie diverse; 100 polli contro un dobermann, un panda contro tre leopardi, mille cavallette contro un chilo di radicchio. Insomma aveva messo su un piccolo impero che abbracciava tutto il racket delle scommesse, del quale Mario teneva orgogliosamente la contabilità. Ci voleva del genio per far passare le cure mediche di Manolo (il più celebrato combattente filippino, detto anche “Gianni Morandi” perché come il cantante era palesemente affetto da acromegalia, ed usava spesso il testone sproporzionato come arma finale dei suoi combattimenti) come spese di rappresentanza, oppure la frattura della gamba (di Manolo o di chi per egli) come sopravvenienza passiva, ma Mario era un signor professionista, e negli anni Johnny era rimasto lontano dalle cartelle esattoriali pagando imposte modestissime.


Il secondo grosso cliente invece era nato a Pantigliate, hinterland milanese, ma si faceva chiamare “il Marsigliese” perché, come ripeteva sempre: “Un gangster che si chiama Marsigliese è più rispettato di uno che si fa chiamare “il Pantigliatese”. Difficile dargli torto. Peccato che in francese sapesse dire sostanzialmente tre parole: “Escargot”, “Autoroute” e “Saucisson”, che ripeteva assolutamente a caso. Ad esempio se gli veniva comunicato un complotto contro di lui da parte di un gangster rivale, lui faceva la faccia corrucciata alla Jean Gabin, poi un mezzo giro sulla poltrona rotante da ufficio e diceva “Saucisson!” come se volesse dire “Perbacco!”, “Poffarre!” oppure “Cazzo!”, ignorando che volesse dire “Salame”. Insomma metteva parole francofone (tratte dal suo vocabolario che comprendeva meno di una dozzina di parole) assolutamente a casaccio nel discorso. Aveva cominciato con il racket delle tombole famigliari; grazie a degli informatori che lo avvisavano quando c’era una tombola tra parenti (va da se che a Natale aveva un gran lavoro) si presentava quando erano già stati estratti dei numeri e con la violenza otteneva il pizzo. Come tutti i boss che si rispettano, per impaurire, minacciare, ed usare violenza nella gestione del suo bisinisse (pronuncia bisinisse) aveva un aiutante, certo Salvatore “Chemminchiadici” così chiamato perché ripeteva sempre questa frase, e nessuno l’ha mai sentito dire altre parole comuni come “Ciao”, “Buon Giorno”, “Evviva gli sposi” oppure “ Comune denuclearizzato”. Si narra che il giorno del suo matrimonio, visto che Salvatore di dire il fatidico “Si” non ne voleva sapere e continuava invece pateticamente a ripetere rivolto al prete “Chemminchiadici, Chemminchiadici” annuendo con la testa, per riuscire a celebrare il sacramento si dovette utilizzare la procedura (mai utilizzata sin dal Concilio di Calcedonia del 451 dopo Cristo) “Pro mentecattibus”, con ogni probabilità inventata al momento dal sacerdote per evitare di restituire le questue e poter quindi andare al banchetto a sfondarsi di antipasti.


Per capire meglio la situazione si reca in un bar che è un autentico epicentro della criminalità, cos’ da potere valutare la reale gravità della sua situazione


Prima della fuga a gambe levate c’era un ultimo tentativo da esperire. Decise di recarsi al Bar “El Vunciùn”, autentico covo di informatori, allibratori, contraffattori di documenti, ricettatori, iettatori e malviventi di piccolo e medio cabotaggio. A Mario però interessava unicamente il barista il cui nome vero ignorava (come tutti) ma che nell’ambiente era noto col nomignolo di Capodistria per via della sua capacità di captare tutte le informazioni che il sottobosco criminale della città poteva mandare, un po’ grazie alla sua esperienza, un po’ grazie alla sua posizione privilegiata.


Solo Capodistria poteva dare indicazioni precise, se non altro in merito alle intenzioni dei suoi due ex-clienti, poiché dava per scontato che la notizia del blitz fosse già di dominio pubblico. Entrato nel bar notò la solita tranquillità apparente dietro la quale si svolgeva invece una attività operosa e totalmente illecita. Il segnale di via-libera era dato da Tuborg, un nordafricano così chiamato perché si ubriacava solo stappando una lattina di birra omonima: quando era sveglio voleva dire allerta, quando dormiva al tavolo voleva dire momento tranquillo, quando invece ronfava con la testa appoggiata sul bancone, usando un numero di “Di più Tv” come cuscino significava calma piatta.


Quella era la situazione che si presentò agli occhi di Mario, era quindi un momento di assoluta pace. Entrò comunque con circospezione, assicurandosi che non vi fossero allibratori del Marsigliese nei paraggi o altre facce per lui pericolose, e quindi si diresse subito da Capodistria intento a riassettare una focaccetta che avrebbe meritato una verifica con il carbonio 14.


Appena lo vide, lasciò il carboidrato giurassico ala sua entropia e gli avvicinò una bottiglia di un amarone. Simulava indifferenza nei confronti degli astanti con un’aria da presentatore del meteo svizzero ma un occhio attento avrebbe potuto facilmente notare la sua preoccupazione. Se l’avessero visto parlare con Mario con ogni probabilità anche lui era fottuto.


“Brutte notizie. Chemminchiadici è già stato a casa tua” gli disse subito, tutto d’un fiato. Mario non fece una piega, e tanto per far finta di essere un duro mandò giù in un sorso l’amaro che aveva peraltro il colore ed il sapore di orina di gatto.


“Capodistria, devi fare revisionare le antenne. Questo potevo anche immaginarlo, non c’era bisogno che venissi da te per saperlo. Dimmi qualche cosa che noi comuni mortali senza un’orbita geostazionaria personale non possiamo sapere!Pensi che si possa trattare?Almeno con Capesanta, se il Marsigliese è così tanto incazzato?”. Lo trattò un po’ duramente, ma Mario aveva dei crediti con Capodistria e quindi si permetteva delle licenze.


“Bene… me l’hai chiesto tu” rispose. “Johnny Capesanta ha approfittato del fatto che El ghiandaera già in città e gli ha fatto un bel contratto. Sai cosa vuole dire no?”.


Certo che lo sapeva, voleva dire che per lui non c’erano appelli. El Ghianda era un killer free-lance spagnolo che veniva contattato quando c’era bisogno di un avvertimento forte, molto forte. Doveva infatti il suo soprannome al fatto che non si limitava ad uccidere e basta come molti suoi onesti colleghi. No, lui catturava la sua vittima, poi la nutriva a ghiande per un paio di mesi in un trogolo di sua proprietà e dopo ne faceva dei preziosi insaccati.


Generalmente dava al suo committente la spalla ed altri tagli meno nobili (le orecchie sottoforma di cotechino ad esempio, o la lingua), mentre lui si teneva almeno una coscia ed il capocollo per farsi la coppa, ed i testicoli per ottenerne i celebri “cojoni di mulo” . Nessuno sa cosa se ne facesse, alcuni dicevano che fosse antropofago, altri che li rivendesse al mercato nero degli insaccati umani.

Nel suo vagabondare cerca, senza fortuna, la protezione del più vecchio e saggio boss in circolazione, un autentico capo siciliano.


Dopo una lunga trafila per riuscire a parlare con Don Gino, Mario fece un’anticamera noiosissima. Pensò subito che la paranoia del pazzo dovesse avere superato ogni livello; infatti nella sala d’attesa non c’erano riviste attuali ma solo due raccolte di poesie sicule scritte dal poeta settecentesco Pediglieri (per la precisione “Mongibbeddu” e “Quanto è bello lu morire acciso”) una cartina di Taormina che ( Mario se ne accorse troppo tardi) una volta aperta era in scala 1/1, una monumentale storia dei Normanni, e per finire una guida botanica per la cura delle zagare. Al posto della boccia dell’acqua, o della macchina del caffè c’era un distributore di cannoli. Finalmente Don Gino lo vide (anche se in quel momento Mario era completamente avvolto dalla cartina di Taormina che non riusciva a ripiegare) ed il vecchio, che non aveva mai usato i suoi servigi ma con il quale vi erano rapporti cordiali, lo accolse con un abbraccio, e addirittura gli concesse il doppio bacio, sintomo di una – quasi – appartenenza alla “famiglia”. Di fronte al malcelato imbarazzo di Mario per tanta espansività il vecchio boss attaccò una nenia incomprensibile: “Fazzu lu pattu ccu certi pirsuni , Vinti vasuni cu voli ballari Tutti li brutti li mettu a ‘nagnuni Tutti li beddi li vogghiu accucciari!”


E visto che dalla faccia di Mario dovette intendere che non aveva capito un cazzo, ripeté con uno sguardo che sottintendeva anche una certa lascivia: “Tutti li beddi li vogghiu accucciari?” “Ah”, disse, senza peraltro essersi tolto dal viso l’espressione di un metalmeccanico che assiste ad un film dei fratelli Taviani. “Trase, picciotto….si parla solo di te…in questo momento, lo sai? Trase!?”. Lo sapeva, lo sapeva…L’ufficio era una fotocopia di quello di Marlon Brando ne “Il Padrino”, con qualche variazione in stile tardo-demenziale. Ad esempio un albero genealogico troneggiava dietro la poltrona del boss: Don Gino era riuscito con un sapido gioco di righello (ed un assoluto disprezzo di qualsiasi pudore storico), a ricollegare i suoi natali a quasi tutti i grandi boss della storia. C’erano i nomi di John Gotti (che gli sarebbe stato zio), di Al Capone (avo diretto), e poi su su ancora, i mitici fratelli Genna da Marsala.


Ma il bello avveniva dopo (o meglio, prima) risalendo lungo il soffitto in un delirio di onnipotenza in qualche modo lo stesso ceppo riuniva anche Napoleone, Carlo Magno, Augusto, Enea….Per decenza, e per i limiti fisiologici del suo collo, Mario non esplorò oltre. Forse c’era un Kronos Finocchiaro? “Ti stupisci?” gli chiese il vecchio boss mentre Mario con lo sguardo stava seguendo 1000 anni di civiltà schematizzati e riscritti da un autentico minchione. “Quando un uomo comanda, ha sangue siciliano. Un poco magari. E io discendo da tutti loro”, disse indicando l’albero genealogico.A Mario sembrò pleonastico qualsiasi tentativo di conversazione in merito e lasciò cadere la cosa. Cercava inoltre di respirare poco visto che il diffusore dell’ufficio emanava una essenza fortissima al gelsomino. Il vecchio proseguì: “Vedi, è tutta colpa di questa pornografia, di questa violenza, che dilaga. Schifezze. Porcherie. Questi films (pronuncia filmèse) americani. Le guerre le abbiamo sempre avute. La fame pure. Ma siamo sempre riusciti a…spirugghiare”. Aggiunse un gesto con le mani quasi a volere tradurre in una lingua conosciuta, poi riprese.


“Ma da quando c’è tutta sta porcheria, sta violenza, sto…internette…solo da adesso abbiamo la più grande piaga. Gli infami!”. Mario notò che nel pronunciare questa ultima parola una vena della fronte era diventata grossa e rossa come un bucatino al sugo, e volendo anticipare un possibile ictus, ruppe gli indugi. ”Don Gino, lei sa il rispetto che io ho sempre avuto per Voi!”... si corresse di fronte ad un colpo di tosse del vecchio, che aveva la funzione di richiamarlo ai doveri della lingua della trinacria.


“Scusi, volevo dire…per Vossia”. Don Gino non fece cenno.“Ah si…Vosscienza” si corresse ulteriormente Mario e proseguì: “Io chiedo la Vostra (pronuncia Voscria) protezione. Sicuramente saprete la gravità dell’accaduto. Ma saprete anche che non ho avuto colpe. Non credo che apesanta e il Marsigliese mi risparmieranno. Ma con il suo avallo potrei farcela, ed in cambio potrei arantirle i miei servigi, oppure…”.


“Mario” lo interruppe il vecchio “Tu vieni qui il giorno del matrimonio di mia figlia, chiedi la mia protezione e non mi chiami nemmeno Padrino! Non si fa tra uomini di onore. Questa cosa mi ha un po’… ammammaluccutu…come dite nel continente…abbacchiato capisci?”. Siccome Mario sapeva bene che il vecchio pazzo non aveva figlie, capì che la sua paranoia aveva superato ogni limite.


“Non voglio cummattiri tra clan” riprese Don Gino, “anche se involontariamente mi hai fatto un piacere. Grosso. Ma non posso…capiri? Però un aiuto te lo voglio dare perché un favore grosso mi fici. Ti voglio dare un consiglio: “Quannu na fimmina annaca l’anca, si nun e’ buttana, picca ci manca!”


Nonostante i suoi sforzi, Mario viene catturato, ma c‘è ancora la possibilità che non sia definitivamente condannato; gli uomini del Marsigliese infatti fanno rapire un suo cugino schizofrenico, Nicolino, affinché distrugga il computer ove si trovano i file compromettenti; evidentemente sono a conoscenza dell’attaccamento di Mario per il suo cugino, ma ignorano il quadro clinico del giovane Nicolino, un ragazzo intelligente che aveva manifestato alcune stranezze…


La prima di queste Nicolino la manifestò quando aveva 10 anni circa; anziché i soldatini o i videogiochi si era fatto comprare uno strumento musicale. Il che può sembrare lodevole, perché denota interesse, intelligenza e sensibilità artistica come direbbe ogni buona maestra. Ma lui non chiese una chitarra o un pianoforte, bensì un clavicembalo perché sognava di potere, da grande, suonare la spinotta nelle puntate del Tenente Colombo. Si esercitava per ore davanti alla televisione, ipnotizzato da quelle lisergiche colonne sonore, ma mancò la fortuna se non l’onore (forse nessuno gli disse che le puntate di Colombo erano già finite e registrate da tempo) e questo gli causò una certa depressione quando fallì nel suo intento…


...Rimase un tipo piuttosto chiuso sino alla adolescenza, quando si fissò invece con l’idea di diventare un sistemista napoletano. La passione gli nacque dopo una schedina occasionale con la quale aveva fatto 12, e che gli aveva fruttato 118 mila lire. Ma più che la vincita, forse fu proprio l’ossessione del 13 mancato che scatenò in lui una passione invereconda e malsana. Stava ore ed ore al bar (perché “il vero sistemista vive al bar”, diceva) in un ambiente poco salubre, facendo la rassegna stampa dei principali quotidiani sportivi al mattino dalle nove (rassegna che comprendeva l’analisi logica e del periodo di ogni articolo che parlasse di calcio italiano) e che si protraeva sino a mezzogiorno. Dedicava il pomeriggio invece a complessi “ragionamenti” pseudo scientifici, che trasformavano il pronostico in una certezza scientifica; calcoli astrologici, rotte nautiche, previsioni meteo, cartelle mediche dei giocatori, dati statistici precedenti, calcolo dei monsoni, della curvatura della terra, bilanci societari, nonché divinazioni pagane (tipo osservazioni del volo degli uccelli) venivano inserite in complesse disequazioni di terzo grado (perché tre sono i pronostici). Del resto ogni analisi scientifica che si rispetti prevede prima l’osservazione e poi la legge scientifica.


Infine tornava a casa tardi con occhiaie marcate e chiedeva dei soldi al babbo, dicendo come giustificazione: ”Papà…a briscola se joca culle denare!” gesticolando con le mani in modo assolutamente teatrale come Mario Merola in “Zappatore”. Infatti in questa sua terrificante metamorfosi umana parlava oramai solo napoletano stretto, tanto che già a Nola o a Caserta non avrebbe potuto essere compreso, avendo ricevuto ispirazione in questa sua vocazione da due “maestri” locali Ciro “O’ Puorco” (per via delle sue orecchie pendule e del suo innaturale colorito roseo) e Pasquale detto “O’Elefante”, sia per la sua mole che per la lentezza esasperante di ogni suo gesto. Quest’ultimo ad esempio, quando decideva di fare una cosa semplice come ordinare un caffè, da quando l’ordine partiva dal cervello ed arrivava alla faringe ci volevano perlomeno 20, 25 minuti. Quando qualcuno glielo faceva notare lui rispondeva dicendo: ”Cu ‘nu poc’ e vasellina l’elefant’ o mise n’culo a la gallin’”, quasi ad ammantare la sua encefalite con un velo di filosofia. Ma nessuno gli credeva naturalmente.


“Sto tredici è sicuro come o’sangre e San Gennaro. O’ miracolo…ma sicuro!!” ripeteva Nicolino terminando la frase con un gorgheggio acuto prolungatissimo ogni sabato, e poi baciando la schedina e strofinandola con un corno che “O’puorco” diceva di essere magico perché era appartenuto prima ad Eduardo che l’aveva regalato a Sofia Loren, la quale ne aveva fatto dono a Maradona.


Invece in un anno e mezzo collezionò solo un dieci, due 9, un 8 e una infezione polmonare che venne guarita con sei mesi nel sanatorio di Sondalo in Valtellina. Vivendo chiuso in un bar e respirandone i fetidi miasmi (un mix di tabacco, sudorazione corporea, spugnetta umida e zozza per pulire il bancone, dopobarba dozzinale oltre a vari sgradevoli gas di produzione umana) era stato fortunato a non prendere la peste.


Questo malanno però permise ai suoi genitori di distaccarlo dalle brutte compagnie. Quando i bronchi furono guariti e il dottore gli chiese se era contento della guarigione, lui rispose dicendo: ”Abbi fete, dicette ‘o puorco, ca ‘o pantano è chino!”- Ciò significava che era ora necessario ripulire il cervello dopo gli alvei, e per questo frequentò una scuola per ex minatori che dopo 20 anni nelle Fiandre tornavano al paesiello natale senza ricordare o capire una parola di italiano, avendo subito un analfabetismo di ritorno.


Dopo questa ulteriore disinfestazione, e questo ulteriore dramma, Nicolino sembrò (finalmente) tranquillo. Frequentò il liceo dimostrando – peraltro- di essere un ragazzo intelligente, e concludendolo con i massimi voti. Ma i genitori vivevano con l’ansia di una nuova e fatale fissazione.
Qualsiasi fatto sentito, o libro letto, o peggio ancora amicizia sbagliata, avrebbe potuto essere il substrato per una nuova, totale mania.


E dopo la maturità questa si palesò con l’ossessione di diventare un poeta futurista. Girava la città con bombetta e baffi a manubrio, in sella ad un velocipede. Comunicava con tutti in modo astruso, quasi più incomprensibile del suo periodo “napoletano”. “Zang-bum. Vecchia + saggina + androne GeNtE che CAMMINA tiptaptiptaptiptap + odore zuppa + telegiornale volume altissimo PEPPEP?= FrancoBOLLO niente”, significava che quel pacco che doveva essere ritirato non era ancora giunto. All’inizio la stramberia sembrò intensa ma anche innocua, fino a quando non decise di aggredire un vigile a Milano. Il poveretto (poveretto fino ad un certo punto, si trattava comunque di un vigile) venne attaccato a causa della conformazione del suo copricapo da “ghisa”, per il quale Nicolino l’ aveva goffamente scambiato per un ufficiale austro-ungarico. ”Abbasso l’Austria! Abbasso il podagroso –paralitico – parlamentarista –passatista. Viva Asinari di Bernezzo!” aveva urlato come un ossesso. Il ghisa lo aveva guardato con fare esterrefatto quando Nicolino si avvicinò e gli sparò un tremendo cazzotto sul naso lasciandolo esangue a terra (tra gli applausi della folla peraltro). Mentre lo portavano via sbraitò contro la “Immonda genia di pacifisti” e contro “i pavidi neutralisti”. Era contento di finire in carcere come i suoi idoli. Fu molto deluso di essere tradotto a San Vittore però anziché ai Piombi o allo Spielberg.


Uscito dal carcere i genitori pensarono che un’esperienza traumatica come quella del carcere avrebbe dovuto far rinsavire il giovane: e invece dopo un paio di mesi di standstill fu la volta del dittatore sud-americano.


Non aveva grosse predilezioni politiche, destra o sinistra diceva (con innegabile lucidità) non cambiava granché Quello che gli sarebbe bastato era il controllo assoluto dei tre poteri (legislativo, giudiziario, esecutivo) di un qualsiasi stato dell’America latina per potere dimostrare al mondo intero i suoi cromosomi da statista.


A tale fine prima rimise a nuovo una vecchia divisa trovata in un armadio e che era stata usata da suo nonno. Peccato fosse da pizzardone ciociaro, ma con qualche aggiunta di mostrine, alamari, ed un cambio di bottoni, era diventata un mix fra la giacca di un bigliettaio del circo, quella di un ammaestratore di leoni, quella di un cameriere di un ristorante di lusso e quella di un pifferaio della banda di paese. Quindi perfetta per la bisogna.


Poi cominciò a gorgheggiare davanti allo specchio discorsi di fantapolitica in spagnolo; a causa della sua geniale naturale politica anfibia ne aveva preparati due, uno “di destra” che ricalcava quello di Pinochet (ed infatti veniva pronunciato in modo marziale, mettendo l’accento sulla seconda sillaba ma in falsetto, proprio come il dittatore cileno) ed uno di sinistra alla Fidel in tono assai meno formale e più enfatico e sognante.


Il primo lo teneva pronto per tutte quelle situazioni di instabilità che richiedevano un pugno d’acciaio: “El Pays està libero; la fuerza armada de ispiracion patriotica, con el die de hoy ha buscado el controlo de los instituciones, per sustraer el pays que estava precipitando nel caos a causa del abatido gobierno marxista – leninista- bakuninista ”. (pausa. Segue applauso fatto con la bocca e breve sorsata di Acqua Pejo). “La junta militar conserva la Tesoria, la Camera General, el Poligrafico, el Senato y el Campionado de Futebòl hasta nuevo orden!”.
Esaltazione condominiale. Poi si girava (nella sua mente bacata così facendo si stava rivolgendo ai suoi fedelissimi e biechi esecutori militari) e sussurrava loro: ”Los lavativos sarano eliminados y emarijnados da las sociedas”, mimando con un sorriso sadico il gesto del tagliagola.


I discorsi invece più di sinistra, pronti per situazioni di emergenza che richiedevano una ribellione al neo-colonialismo – imperialista, venivano obbiettivamente peggio: un po’ perché la barba posticcia e ispida (tipicamente castrista) pungeva, un po’ perché Nicoliino si impuntava con il pronunciarli con il sigaro (cubano!) in bocca. Comunque l’archetipo suonava così: ”Hoy en el anniversario de la rivolucion, creo que nosotros vamos en camino de tener el sistema mas democratico hacia los imperialismos americanos y capitalista. Los movimientos antiglobalizadores son una especie de Internacional” (applauso con bocca). E concludeva con un magniloquente e inverosimile sguardo estatico rivolto verso tutto e niente in particolare e tono da sognatore: “Un mundo nuevo, al que sobradamente es acreedora nuestra especia, es posible y serà realidad! Mierda a los embargos!!”.


Era questo un discorso appropriato per situazioni che richiedevano un pugno d’acciaio (ma questa volta un pugno chiuso).


C‘è la farà il cugino schizoide ad aiutare il buon commercialista della mala da un intrigo che si va ad allargare a macchia d’olio, coinvolgendo uomini politici, palazzinari, magistrati, e giornalisti, tutti con un armadio ben pieno di scheletri?Non vi resta che leggere il libro…


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