IL CAPPELLO CON LA ROSA
Esco a fare due passi.
Non ho voglia di rimanere confinata in casa. Chiudo la porta alle mie spalle e affronto lo smog e il rumore del traffico, immergendo il mio incedere lento tra la folla di automi che vagano guardando nel nulla della città assolata.
Le vetrine rimandano bagliori sonnolenti illuminando merce inutile, troppo cara per le mie tasche, sempre più vuote.
Mi addentro nei vicoli stretti e rimango da sola, man mano che procedo verso la periferia.
Miasmi di abbandono accompagnano il mio cammino indolente, senza meta.
Osservo una lucertola, sbucata chissà da dove, che s’immerge in radi ciuffi di erba cresciuti per miracolo, tra crepe che solcano, come rughe, l’arido cemento dei fabbricati.
Era forse questa la “città giardino” che promettevano i nostri amministratori?
Ad ogni passo, aumenta sporcizia e degrado: cartacce, bottiglie di birra vuote, bicchieri di plastica rotolano sospinti dal vento, seguendo la mia andatura sempre più svogliata. Tracce di esistenze, perse nel lento scorrere del tempo inutile, scandito dalla moderna barbarie.
Ripensando a ciò che avrei potuto realizzare rimanendo in casa, avverto una vaga sensazione di pentimento ma sono per strada, tanto vale proseguire il mio percorso.
Mentre gli occhi assenti sono rivolti al selciato, qualcosa cattura il mio sguardo.
In una vetrina, scorgo un cappello di paglia ornato da un fiore di seta di un pallido color rosa polvere, che lo rende molto chic.
Decido di acquistarlo. Avvicinandomi, mi accorgo che, appeso a quell’attaccapanni di bronzo, fa davvero una splendida figura. Ha uno stile retrò che lo rende assolutamente desiderabile.
Entro senza esitazione e mi dirigo verso il commesso seduto dietro al lucido bancone nero, abbellito da un nastro viola con fregi dorati.
Il giovane ha orecchie leggermente appuntite e mento sfuggente. Due caratteristiche che lo fanno assomigliare a un pipistrello.
“Sembra un beccamorto!” penso, sorridendo tra me, “con quei capelli impomatati e il viso cereo che ricorda il conte Dracula.”
Mi vergogno un po’ di aver fatto queste osservazioni e così, prendendo coraggio, chiedo il prezzo del cappello.
Ora è il commesso a scoppiare in una risata inarrestabile, mettendo in mostra denti sottili, come quelli di un delfino. Faccio un passo indietro, sorpresa di questa improvvisa ilarità.
Osservo le mie scarpe: non sono spaiate, come quella volta che sono uscita con le calzature di due colori diversi, diventando il polo di attrazione dei passanti. Sono vestita bene e la mia borsetta è intonata ai colori del vestito. Ho controllato il trucco specchiandomi in una delle vetrine incrociate strada facendo. Pertanto, mi chiedo il motivo di quella risata. Forse ho i capelli fuori posto o i denti sporchi di qualcosa?
Lascio che il giovane si calmi e resto a osservarlo con aria interrogativa.
Ritornato serio, il commesso mi spiega: «Cara signorina, questa è un’agenzia di onoranze funebri». Ha una voce metallica come quella degli avvisi telefonici collegati a fredde, inumane segreterie.
Dio, che figuraccia!
Mi dirigo imbarazzata verso l’uscita e inizio a correre a gambe levate mentre giuro che non frequenterò mai più quella strada.
L’impresario di pompe funebri mi corre dietro col cappello in mano. La rosa che lo abbellisce riceve continui scossoni rischiando di cadere.
«Signorina, il cappello non è in vendita: l’ho appena tolto dalla testa della nostra ultima cliente, pace all’anima sua! Nessuno dei parenti l’ha reclamato, per cui, se lo desidera, può portarlo via. È suo! La prego, lo accetti. Mi fa piacere donarglielo. Davvero! Lo provi, almeno!»
M’insegue rimanendo senza fiato ma io sono già lontana.
Sbuffando, rallento la corsa.
Affondo di nuovo i miei passi tra la folla di automi che vagano, guardando nel nulla di quella che doveva essere una “città giardino” e, intanto, penso: “Provare il cappello tolto or ora a una defunta? Neanche da morta!”