Muore tutto ciò che si dimentica - L’Iliade

di

Ildo Testoni


Ildo Testoni - Muore tutto ciò che si dimentica - L’Iliade
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 124 - Euro 10,00
ISBN 978-88-6587-9870

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In copertina: “Oblio” acquerello di Enrica Pellicciari


Presentazione

È con vera gioia che mi accingo a presentare ai Lettori l’ultima fatica letteraria del mio Collega e Amico Ildo Testoni.
L’attaccamento alle tradizioni, la fedeltà ai Principi fondanti della civiltà contadina, la professione dei Valori che hanno caratterizzato gli anni, ormai lontani, della sua gioventù emergono, vivaci e forti, dal racconto appassionato e lucido di Ildo.
Le medesime doti umane e morali che sono quelle dei protagonisti dei suoi racconti, vivono nelle parole del suo discorrere quotidiano, nel suo essere ancora oggi, abbondantemente e serenamente ottuagenario, scrittore e oratore attento, vivace, curioso.
In questo suo ultimo scritto, in particolare, si affacciano prepotenti e pregnanti conoscenze letterarie davvero sorprendenti in chi, come lui, è figlio di un’epoca avara e parsimoniosa, che poco spazio lasciava alle velleità e alle ambizioni culturali dei giovani, chiamati fin da subito al durissimo lavoro nei campi.
Ancora una volta Ildo prende per mano il lettore e lo accompagna in una piacevolissima passeggiata che attraversa i modi e i tempi delle antiche tradizioni della civiltà contadina, toccando anche i miti, indimenticati e indimenticabili, degli Eroi di Omero.
A Ildo il migliore augurio di proseguire nella sua feconda opera di scrittore.
A tutti, buona lettura.

Marzo 2019

Marco Bottoni


Prefazione dell’Autore

Prendersi cura della nostra storia è un tributo che si fa al Paese e ai posteri. Sono anche memorie personali che si intrecciano con memorie collettive.
Sono nato e cresciuto in una tipica famiglia patriarcale contadina e ho sempre visto in questa componente manuale del tempo, anche una componente morale del vivere. Le memorie storiche non si annullano anche raggiunta l’età del declino della vita. Il fascino dell’identità e delle tradizioni sussiste ancora fra gli anziani nell’indifferenza delle nuove generazioni.
Questa nostra Era che marcia all’insegna della velocità ci sta negando ormai ciò che di bello e di brutto ci avevano trasmesso i tempi passati.
Ricordarli significa ritornare alle radici delle nostre tradizioni, additandole alle nuove generazioni.
Ho visto anno dopo anno il declino della grande tradizione contadina dei nostri paesi e raccontarla come “monumenti” di una civiltà passata può essere un importante tributo al Paese e ai posteri.
È stato scritto: “Il presente sarebbe un deserto terrificante senza le tracce del passato” una società che non si riconosce muore. Ma se si rinnova tagliando i ponti col passato si disperde.
Noi lavoratori della terra impegnati nell’evolversi delle stagioni nelle produzioni degli alimenti rappresentiamo anche il frutto di un’attività che rispetta la terra, l’uomo e l’ambiente. La natura è partecipe del destino degli uomini e questi ultimi a loro volta sono partecipi al destino della natura: alleati necessari nella buona e nella cattiva sorte, quindi la distruzione della natura significa autodistruzione per l’uomo. Il rispetto per l’ambiente deve diventare crescita morale e l’amore per il Creato si trasforma in contemplazione per il Creatore.
Anche il grande poeta mantovano Virgilio diceva “Ogni lavoro è umano, ma quello dei campi è divino”.


Introduzione dell’Autore

Partendo dal presupposto che il futuro è tale solo se profondamente ancorato alle radici del passato, ritengo determinante, per le nuove generazioni, avere la coscienza del come si viveva prima di loro, proprio al fine di renderli consapevoli di un vissuto che nella memoria viva segna la Storia.
Quando si viveva solo, o quasi esclusivamente, di agricoltura e tutta, o quasi, la popolazione le era dedita, imperava la così detta civiltà contadina con le sue tradizioni, i suoi ritmi, le sue credenze.
Di tutto questo mi sono soffermato a descrivere, rinnovando in me ricordi belli e brutti di una attività che ha coinvolto tutta la mia vita. Quando l’avvento della moderna tecnologia era ancora un sogno, si vivevano le ansie e le preoccupazioni dei periodi di siccità così come quelli delle inondazioni. Si assisteva impotenti alla distruzione di raccolti minati da insetti e parassiti o dalle frequenti grandinate. Quando gli allevatori, schiacciati dal mercato che riconosceva al loro latte un prezzo inferiore ai costi di produzione iniziarono i primi tentativi di cooperazione, questi purtroppo andarono a cozzare contro gli egoismi e le ambizioni di soggetti malati di protagonismo.
Così come ho ritenuto di consegnare al ricordo l’avvicendarsi stagionale del lavoro agricolo nella tradizione della civiltà contadina, altrettanto doveroso ritengo evidenziare fatti ed avvenimenti sconosciuti ai più ispirandomi all’Iliade di Omero e facendone similitudini.
Dello storico assedio di Troia, Omero evidenzia come le divergenze e i dissidi fra le gerarchie politiche e militari greche finiscono per arrecare danni e lutti soprattutto agli umili servitori del potere. Proprio come avvenne a tanti soldati italiani che nella Prima Guerra Mondiale furono mandati allo sbaraglio da generali spesso in dissidio tra di loro i quali, per mire di supremazia, non esitarono a portare alla morte migliaia e migliaia di umili figli del popolo.
Omero descrive come le divergenze fra i condottieri finiscano per scoraggiare i soldati spingendoli fino alla diserzione, e come questa venga evitata dal “multiforme ingegno” di un eroe chiamato Ulisse. Situazione paragonabile a quella di una società cooperativa i cui soci, maldestramente manovrati da un incapace, stavano per mandare alla rovina il bene comune, e di come il pericolo fu evitato grazie al buon senso e alla capacità di alcuni altri.
La supplica che Andromaca rivolge al marito Ettore di abbandonare la guerra e ritornare in famiglia non sortisce effetto, e l’Eroe, per non essere tacciato di traditore, continua a combattere fino a incontrare la morte per mano di Achille. Simile è il destino del soldato il quale, dopo l’8 settembre1943, inebriato dal fascismo, continua a combattere incurante delle preoccupazioni della moglie e perisce in una imboscata tesagli dai partigiani.
L’odio viscerale, il desiderio di vendetta, l’ira che Omero descrive nel narrare le vicende di Ettore e Achille io li ho visti rivivere durante la guerra civile negli anni 1943-44 nello scontro fra forze fasciste e partigiane, così come il gesto pietoso di Priamo che bacia la mano di Achille per ottenere la restituzione della salma di suo figlio rievoca quello del padre fascista che si umilia davanti al capo dei partigiani per avere i resti del proprio figlio.
Grande importanza riveste l’atto di raccontare le gesta degli eroi alle generazioni future.


Muore tutto ciò che si dimentica - L’Iliade


Muore tutto ciò che si dimentica

Castelmassa, nel tempo, è sempre stato un paese che ha attratto su di sé l’attenzione delle popolazioni vicine per l’importanza di essere il centro fondamentale dell’Alto Polesine, per la Cerestar (fabbrica che trasforma mais e patate in olio e fecola), per la famosa scuola d’arte, per il mercato del sabato e soprattutto per la fiera di San Martino.
Col passar degli anni, molto si è perso di quel richiamo popolare, ma nella mente e nel ricordo delle persone ancora vive, che da piccole hanno vissuto la fine degli anni Trenta, prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale, resta l’immagine di una tradizione che era veramente coinvolgente.
Al mercato del sabato, ma soprattutto alla fiera di San Martino, la gente che a frotte si portava in piazza della Libertà proveniva dal mantovano, dal veronese e da ogni parte del Polesine.
La coincidenza del giorno di San Martino con il compleanno del Re d’Italia, Vittorio Emanuele III, portava un giorno di vacanza dalla scuola.
Nel 1938 frequentavo la seconda elementare, quando di buon mattino con mio padre e mio nonno, su un biroccio seduti su due balle di paglia, ci avviammo da S. Stefano per raggiungere il mercato del bestiame, portando noi, trainati dal biroccio due buoi di fine carriera per essere venduti, sostituiti da due capi giovani.
Allora la strada era l’argine del Po e nei pressi di Castelnovo Bariano si vedeva nel fiume un mulino: la corrente dell’acqua, facendo girare una grossa ruota a pale, metteva in funzione le macine e sopra di questo torreggiava una scritta a caratteri cubitali “Dio ti salvi”.
Arrivati a destinazione ci trovammo su un grande prato predisposto per il mercato dei bovini, c’erano bovini allineati tra venditori, mediatori ed acquirenti. Era tutto un vociare tra strette di mano, parole dette nell’orecchio dai mediatori ai compratori per convincerli a fare l’acquisto.
Mio padre e il nonno avevano messo gli occhi su due giovani di razza romagnola, che dovevano servire per l’aratura e per il traino. Una volta venduti i nostri due capi di scarto, con lo stesso mediatore iniziammo la trattativa per l’acquisto dei due buoi romagnoli. L’operazione durò parecchio, tra strette di mano, tira e molla sul prezzo, finzione di andarsene via senza concludere, fino a sottoscrivere l’acquisto. Prima di tornare a casa, contenti per l’affare fatto, passammo nel centro della piazza invasa da bancarelle ricolme di ogni ben di Dio: abbigliamento, scarpe, generi alimentari, soprattutto castagne, frutto della stagione, dolciumi etc.
Era quella l’occasione per molta gente di fare gli acquisti che sarebbero serviti per tutto l’inverno.
Al mercato c’erano anche i bazar dove i bravi imbonitori sembravano quasi voler regalare la merce con le loro battute e barzellette. Anche questo mestiere, ormai, è solo un ricordo di noi anziani.
Piazza della Libertà di Castelmassa, diverrà famosa in seguito per la risonanza data dallo scrittore Giovannino Guareschi nell’averla immortalata sulla copertina del suo libro Don Camillo.
Da un punto di vista economico, Castelmassa è sempre stata legata alla famosa F.R.A.G.D. (fabbriche riunite amido glucosio destrina), attualmente Cerestar. Nacque nel 1902 da un gruppo di poveri imprenditori, fra tante difficoltà e polemiche, avendo contro i proprietari terrieri e gli stessi fittavoli della zona che temevano di perdere il bracciantato che avevano sempre sfruttato.
In quel periodo i sindacati di sinistra si facevano sentire gridando: “la boie”, con questo volevano dire che era necessario aver da mangiare e quindi che la pentola familiare bollisse quotidianamente. Nonostante tutto la F.R.A.G.D. cominciò ad operare e ben presto cominciammo a vedere segni di benessere. Inizialmente la fabbrica lavorava solo patate per produrre la farina fecola molto richiesta dall’industria dolciaria. Ne trattava 46.600 tonnellate all’anno. La coltura della patata si diffuse rapidamente, perché, oltre ad essere redditizia, non temeva i danni della grandine. Il conferimento del prodotto alla fabbrica da parte degli agricoltori era molto impegnativo, in quanto, specialmente noi di Melara, dovevamo partire dall’azienda al mattino presto, per tornare a volte verso sera a seconda della fila dei carri e dei carretti cerchiati in ferro che aspettavano il proprio turno per scaricare. Contemporaneamente, a giorni alterni, gli stessi carri e carretti si dirigevano verso lo zuccherificio di Ostiglia per il conferimento delle barbabietole. Col passar degli anni il raccolto della patata è andato in esaurimento sostituito dal mais che la fabbrica trasforma in olio e derivati per circa 900 tonnellate al giorno. La fortuna della F.R.A.G.D. di proprietà statunitense è dovuta anche al fatto che, durante la guerra, è stata risparmiata, come anche il paese, dai bombardamenti degli alleati a differenza della vicina Sermide che, per la distruzione del ponte strategico sul Po, fu molto danneggiata.
Nonostante l’ottimo rendimento produttivo, nel 1946 in un periodo di grande turbolenza sindacale, a causa della grande disoccupazione, la stessa fu paralizzata dai grandi scioperi che scuotevano il vivere sociale di quei tempi in cui iniziavano a svilupparsi diverse ideologie.
Durante gli scioperi scomparve il direttore della fabbrica e da allora non si ebbero più notizie. Anche per questo rapimento, ma soprattutto per il perpetuarsi degli scioperi, le proprietà americane della fabbrica erano intenzionati a trasferire la fabbrica in altra sede. C’è voluto tutto l’impegno e il carisma del parroco dell’epoca perché non avvenisse questo spostamento.
Il mandamento di Castelamassa è sempre stato un punto di riferimento per tutti i paesi dell’Alto Polesine, e la sua storia era improntata al servizio della popolazione. Fin dai tempi dell’occupazione austriaca nel 1865 fu istituito l’ufficio telegrafico che, date le difficoltà di circolazione delle notizie di quei tempi, rese un servizio importantissimo alla popolazione.
Nel 1881 Castelmassa si dotò del teatro Cotogni con ben 500 posti a sedere, che nel tempo fu l’attrazione artistica di tutto il mandamento. I più celebri cantanti del tempo, tra i quali la nostra conterranea Rita Malatrasi, ne hanno calcato le scene. Nel 1889 nasce a Castelmassa la scuola arti e mestieri, che diventerà scuola d’arte nel 1907 e istituto d’arte il primo ottobre 1960, il quale dava la possibilità di accedere alla facoltà d’ingegneria dell’università. Inutile dire quante benemerenze si è nel tempo meritata questa istituzione.
L’avvio del progresso nell’artigianato zonale, nasce qui da dove sono partiti i pionieri, che forti dell’istruzione avuta non hanno esitato ad impegnarsi nell’innovazione. Dato non trascurabile, il sacrificio di quanti giovani che per frequentare la scuola, dovevano percorrere chilometri in bicicletta su strade sconnesse.
Non a caso F.R.A.G.D. si è insediata a Castelmassa, ma perché ha scelto un ambiente di agricoltura fertile e ricca di tradizione. La coltivazione della patata era già in essere da tempo, perché era uno degli alimenti più importanti con cui si sfamava la popolazione. Si consumava fritta, cotta nell’acqua, ma il piatto più famoso è il purè fatto con latte e burro. Il seme della patata compare in Italia dopo la scoperta dell’America di Cristoforo Colombo. Il seme attualmente proviene da zone collinari e viene rinnovato di anno in anno. Il seme s’interra a fine inverno in solchi preparati a distanza di circa un metro uno dall’altro e circa trenta centimetri da seme a seme nello stesso solco.
Successivamente viene ricoperto da uno strato di circa dieci centimetri di terra. Prima di arrivare a raccolto “ad agosto” la patata è soggetta a ripetute sorchiature per tenere mosso il terreno, ma soprattutto per l’estirpazione delle erbe infestanti. Oggi viene raccolta con macchine moderne, ma fino ad alcuni decenni fa la raccolta avveniva con l’aiuto di un piccolo aratro particolare trainato da un cavallo o da un asino che riportava in superficie la patata. Il prodotto veniva raccolto a mano e diviso tra tuberi di qualità, destinati all’alimentazione e al commercio, e tuberi piccoli e di scarto destinati all’alimentazione dei suini. Da ricordare che la patata è stata risparmiata dai parassiti fino ai primi anni del Dopoguerra quando, come per tante altre colture colpite dagli insetti, ha cominciato a subire i danni della dorifora.
Gli agricoltori di Castelmassa e del Polesine oltre alla patata hanno sempre coltivato anche il granoturco, anche questo proveniente dall’America, fu portato in Italia dal bresciano Pietro Gaioncelli, nato a Sonico.
Con la patata, il granoturco era l’alimento che contribuiva in grande misura ad alimentare le popolazioni povere. Addirittura c’era chi si sfamava solo con la polenta, frutto del granoturco, rischiando però di ammalarsi di “pellagra”. Oltre che per l’alimentazione umana, il granoturco trovava grande impiego nell’alimentazione del bestiame, suino in particolare. Non trascurabile era l’impiego degli stocchi della pianta del granoturco destinati ad integrare la razione bovina. Le foglie stesse che racchiudevano la pannocchia, venivano inserite in apposite federe per creare materassi in grande uso al tempo.
Gli stessi scarti degli stocchi venivano utilizzati per alimentare il fuoco per la cottura del pane nei forni famigliari.
Col passar degli anni la denominazione del granoturco si è cambiata nel termine americano di “mais” anche per le grandi manipolazioni genetiche americane che hanno consentito al prodotto una grande resistenza ai parassiti, ma soprattutto un’elevata produttività. Fino ai primi anni del dopoguerra il mais si seminava a mano in un solco tracciato dallo stesso aratro particolare che si usava per la semina e la raccolta delle patate. Il mais appena raggiunta l’altezza di dieci centimetri circa veniva ben curato con zappatura e sorchiatura. Le operazioni erano affidate in massima parte alle donne. È ancora vivo nel ricordo degli anziani come avveniva il lavoro in forma collettiva. Le zappatrici, una di seguito all’altra, seguivano la prima del gruppo chiamata con ironia “la caporala”.
Qui c’è tutta l’atmosfera di un’epoca. Mentre lavoravano, di tanto in tanto tra barzellette e battute allegre, le donne intonavano canti del folclore popolare e non di rado questi canti facevano eco ad altri canti provenienti dalle aziende vicine, intonati da altre donne ugualmente impegnate allo stesso lavoro. Il canto nella campagna era anche un diversivo per alleviare la fatica del lavoro. Aumentava anche quell’idillio campestre, perché quando entriamo a contatto con la natura ci sentiamo rinvigoriti nel corpo e nello spirito. Aver passato tutta la vita a contatto con queste meraviglie posso assicurare che è verità.
Dopo la sorchiatura e la liberazione dalle erbe infestanti, si attendeva il mese di agosto per la raccolta. Si staccava manualmente la pannocchia e veniva fatta cadere in una cesta di vimini, la quale una volta piena veniva versata in un carro appositamente preparato per il contenimento. Successivamente, questo carro pieno veniva versato sull’aia della corte per essere poi scartocciato. La scartocciatura non era altro che la liberazione della pannocchia dalle foglie che l’avevano avvolta fino alla maturazione. L’operazione di scartocciatura avveniva in un clima di grande festa ed allegria, di solito di sera dove uomini e donne seduti attorno al grande cumolo di pannocchie si davano appuntamento fino all’ultima pannocchia da scartare.
Era quella l’occasione per tanti giovanotti d’incontrare le ragazze del vicinato, e tra canti, barzellette e balli a piedi nudi al suono di una fisarmonica, nascevano amori ed illusioni. Quando poi il proprietario del mais portava sull’aia vino per tutti, l’allegria raggiungeva il massimo.
Il mais così liberato dalle foglie passava a una delle prime macchine del tempo, la sgranatrice, che liberava il grano dal tutolo. Si passava quindi all’essiccazione che avveniva sull’aia ai raggi del sole.
Quando l’essiccazione era quasi raggiunta, per liberare il seme dalle restanti impurità dovute alla pula, si passava alla spalatura. L’operazione avveniva lanciando in alto controvento il mais che, pesante, cadeva al suolo, mentre le impurità leggere venivano spinte dal vento da un’altra parte.
Raggiunta l’essiccazione completa, il mais passato nello staio che ne sanciva peso e misura, veniva insaccato e faticosamente portato a spalle nel granaio, ultimo piano della casa padronale. A quei tempi, il mais, come già descritto, era l’alimento principale, anche perché il frumento veniva spesso sommerso dall’acqua stagnante delle piogge invernali non essendo ancora stato escavato il Perenne, scolo diretto al mare.
È stato merito del nostro concittadino Amos Bernini se nei primi lustri del Novecento fu realizzato.
Al giorno d’oggi, anche se passato in secondo ordine, superata dal grano, di cui si fa grande uso, il mais rimane essenziale per accompagnare certe portate come: il baccalà, intingoli vari e ritorni di vecchie abitudini come: polenta e grasso pestato con aglio, diventata ormai una specialità da grande ristorante.
La definitiva scomparsa della civiltà contadina, con l’evento del boom economico nei primi anni Sessanta, ha negato alle nuove generazioni la conoscenza di riti e tradizioni che per anni hanno segnato il trascorrere del tempo.

[continua]


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