L’Imbrancamento
La corriera procedeva lentamente per la strada di montagna, stretta e tutta curve, lanciando in continuazione il suo avvertimento sonoro, quasi inutile, perché ormai a quell’altitudine non incontrava più alcun altro veicolo, sia a motore che a trazione animale. Lasciava dietro di sé una nuvola di polvere che pigramente stentava nel tornare a posarsi sulla strada bianca o sulle foglie dei faggi indorate dal sole di luglio.
Il vecchio, ben oltre la settantina, guardava attentamente fuori dal finestrino, imbiancato dalla polvere, oltre le consunte e sporche tendine rosse. Aveva i capelli bianchi tagliati corti, all’umberta, che mettevano in evidenza una scatola cranica rotonda, non esageratamente grande, due occhi grigi, svelti e curiosi, affioranti da una raggiera di rughe ed un vistoso paio di robusti baffi brizzolati.
“Siamo al Casone di Profecchia!” disse rivolto al quindicenne che gli sedeva al fianco. Ma questi non gli prestò attenzione, preoccupato piuttosto che l’odore della polvere ed il puzzo della nafta, insieme alle mille curve ed ai sobbalzi, gli procurassero la nausea, come era avvenuto sette anni prima, nel 1943, quando aveva fatto quella stessa strada insieme alla madre per sfuggire ai bombardamenti aerei.
“Cosa dite, babbo?” interloquì la donna giovane, vestita di nero, dal bel faccino bianco e roseo, che aveva chiesto di sedersi ai primi posti della corriera, in quanto sofferente del mal d’auto. Aveva al fianco un paio di bambine, gracili: una di circa dodici anni, l’altra di otto, con in testa due fiocchi colorati che ne fissavano graziosamente le treccine.
“Ha detto, zia, che siamo al Casone di… Prosecca!” le rispose un tredicenne magro, dai grandi occhi marroni, che sedeva in posizione intermedia tra i due gruppi.
“È un posto dove i signori ci vengono in villeggiatura in estate!” proseguì il vecchio, passandosi un dito sul labbro inferiore, quasi a voler mettere in ordine i baffi che cercavano di nasconderlo.
Riccardo, voleva correggere il cugino, ma la sua attenzione fu attratta da una fila di muli giganteschi, tutti con addosso il basto, che sembravano attendere pazientemente a bordo strada il passaggio della fastidiosa corriera.
“Lo sapete, figlioli,” riprese il vecchio, come seguendo il filo di un pensiero “che questa strada, tutta in salita, l’ho fatta tirando un carretto su cui avevo caricato i miei attrezzi e la mia famiglia, quaranta anni or sono, quando andavo a fare il carbone nella Tenuta Reale di S. Rossore. La gente quando mi vedeva passare per la strada mi chiamava l’uomo cavallo!”
“Vi prendevano in giro?” chiese Brunino, il tredicenne, a cui la madre, primogenita di tre sorelle, aveva dato lo stesso nome del nonno.
“No!” esclamò il vecchio Bruno “Ci fermavamo lungo la strada, dai contadini e questi ci davano da bere e riparo nella stalla o nel fienile per passare la notte. Tua madre, Brunino, andava con la secchia a prendere l’acqua, mentre la tua, Riccardo, andava a farsi dare dai contadini una ciotola di latte per il povero Angiolino, che era infelice. Qualche volta quella brava gente, non voleva compensi e le regalavano il latte. Era una guarzetta ben educata, la Caterina, bionda e con gli occhi azzurri!”
Tutti, malgrado i rumori della corriera, cercavano di ascoltare il racconto del vecchio.
“E nostra mamma, cosa faceva?” Intervenne Maria, la più grandicella delle sue sorelle.
“Luciana?” Il vecchio corrugò le sopracciglia rade e bianche, come per cercare nella memoria. “Ah… Non era ancora nata!”
Luciana, avrebbe voluto voltarsi, ma temeva che questo gesto le suscitasse la nausea e perciò, sempre con la testa rivolta in avanti, chiese: “Babbo, raccontategli del ciuchino!”
Il vecchio ridacchiò un po’, quindi riprese: “Quell’anno le cose erano andate bene. Quando scendemmo verso il piano per la nuova stagione di taglio e cottura del carbone, mi avanzavano dei soldi e con quelli mi comprai un bel ciuchino, forte, robusto, dal pelo lucido. Così mi risparmio di tirare il carretto, pensai!” Sapientemente Bruno aveva interrotto la narrazione.
“E allora, cosa successe?” chiesero le nipotine che ascoltavano quella storia per la prima volta.
“Quello era un ciuchino di montagna…, abituato alle strade sterrate, non conosceva il lastrico cittadino. Andò tutto bene fino a Castelnuovo Garfagnana, qui trovò le strade lastricate, gli sembrava di scivolare con i ferri su quelle pietre,… si impuntò e non volle più andare avanti. Così fui costretto a staccarlo, legarlo per la cavezza dietro il carretto e rimettermi alle stanghe io, come all’andata!”
I ragazzi risero. “O nonno, ma non è giusto! Era il ciuco che doveva tirare!”
Anche il vecchio rideva, ma si interruppe per dire: “Ecco, siamo al passo delle Radici, qui si esce dalla Toscana!”
La corriera si era fermata dinanzi ad una casa un po’ tozza, con una facciata senza finestre, o quasi. C’era solo una porta con sopra scritto a stampatello “Ristoro”. Alcune persone scesero, portandosi dietro fagotti e scatoloni legati con il cordino. Erano per lo più donne anziane, basse, un po’ squadrate, con vesti nere ed in testa pezzuole scure o azzurre con stampati piccoli fiorellini o stelline.
“È gente che va a S. Pellegrino, alla tomba del Santo!” spiegò qualcuno degli altri passeggeri rimasti a bordo.
“Luciana!” disse il nonno “uno dei prossimi giorni, dopo che ci saremo sistemati, avrei anch’io piacere di andare dal Santo, con i nevodi, naturalmente!”
La figlia, questa volta si volse, e guardando il padre fece un segno affermativo con la testa “Non abbiamo molto tempo, ma vedremo di accontentarvi!” Sapeva quanto il padre e la sua famiglia fossero devoti a quel santo e desiderava con tutto il cuore di poterlo accontentare.
La corriera si mosse, imboccando la discesa.
Fino ad allora avevano viaggiato in una stretta strada polverosa, aggrappata alla montagna, sul ciglio di profondi burroni oppure in mezzo ai boschi, prima di castagni, poi di faggi, con rare zone aperte alla luce. Al di là del passo si vedevano invece solo ampi pascoli e prati, irregolarmente divisi dalle file degli alberi che crescevano lungo i ruscelli ed i torrenti. Lo sguardo spaziava per una ampia vallata, in leggera discesa, movimentata da collinette di poca importanza. I boschi erano sulla destra della strada e salivano sulle pendici dei monti azzurrini che chiudevano il paesaggio verso sud ed est: il Monte Giovo, lo Spicchio, il Monte Albano, l’Alpe di San Pellegrino.
Dopo poco la corriera fece un’altra fermata, dinanzi ad una vecchia casa.
“Siamo arrivati!” disse il nonno, alzandosi in piedi “È la nostra fermata: l’Imbrancamento. La corriera non va a S. Anna, ma a Piandelagotti!”
Anche Luciana, imitata dalle due bambine, si era alzata in piedi, ma, sgomenta per la novità, non si accingeva a scendere. I due maschi invece saltarono a terra ed aiutarono il nonno a calarsi dall’alto scalino. L’autista era sceso e stava allineando al bordo strada le loro valige.
Quando la corriera ripartì, imboccando una strada in discesa che si innestava con un angolo molto acuto, Brunino chiese cosa voleva dire “imbrancamento”. Riccardo, fresco degli studi di francese, disse che pensava che quella parola avesse una qualche parentela con tale lingua e volesse appunto dire diramazione, innesto. Ma il nonno spiegò che quello era il punto dove i pastori riunivano i loro greggi, cioè imbrancavano le pecore.
[continua]