Opere di

Serena Maglietta Pollari

POESIA EPICO – CIVILE

di Serena Maglietta Pollari

Serena Maglietta Pollari, di famiglia modenese di antica tradizione, dopo aver compiuto i suoi studi nella città di residenza, si è trasferita a Milano, dove ha svolto la funzione di preside di Istituti medi superiori e dove attualmente vive. Soltanto da alcuni anni, diminuiti gli impegni personali e familiari, si dedica ala poesia: ha pubblicato tre raccolte di versi e due poemetti.
Nelle sue opere, se si esclude, in qualche misura, la sua prima raccolta, l’autrice aderisce alla poetica che si potrebbe definire epico-civile, delineata tra gli altri, in modo particolarmente chiaro e significativo, da Mario Luzi in uno dei suoi ultimi interventi, apparso sul numero 185 del mensile “POESIA”, con il titolo: “la poesia parla del tempo in cui si vive”. Dello scritto si riferiscono alcuni passi: “Vado affermando, forse da sempre nella mia lunga esistenza, ma più segnatamente negli ultimi anni, che la poesia è vita e se oggi la vita ci chiama a prove difficili e drammatiche, la poesia non può eluderle. Anzi, non deve… Ecco, oggi si chiede al poeta…di uscire allo scoperto e testimoniare, con la parola di cui è capace, la forza di impegno e di denuncia”. E così prosegue, a proposito della “categoria della guerra”: “Ci sono fasi nella storia umana in cui lo scontro si fa più duro e feroce. La fase che stiamo vivendo è una di queste. È lo scontro tra l’Occidente (di cui l’America è la più e oramai l’unica grande potenza al mondo) e… miliardi di esseri umani che sono stati sacrificati al nostro benessere…
La nostra prosperità (infatti) è ricavata dall’immiserimento di gran parte delle popolazioni del pianeta”. E ancora, a proposito del rapporto tra poesia e realtà: “Si ha l’impressione che il rapporto tra le cose oggettive, la realtà spirituale e la parola non ci sia più. Anche la parola è in crisi e questa separazione tra “Cosa” e “Parola” è gravissima.
Passando in rapida rassegna alcuni testi di Serena Maglietta Pollari, si procederà in base alla successione cronologica dei libri pubblicati, citando giudizi di critici e di esperti cui fanno seguito alcuni brani fra i più “tipici” e significativi di ognuno.

Nella prima raccolta di poesie: “Quando tutto il passato era ancora futuro” (Primo premio al Concorso Internazionale “Omaggio a Pirandello”) prevalgono le composizioni in forma di poesie-racconti, non prive di echi crepuscolari dove, secondo la presentazione di Alessandro Mancuso, “il descrittivismo è puntualmente contestualizzato e raccolto intorno ai nodi focali della composizione…scorci di vita del passato e particolari raffinati e minuziosamente descritti, popolano le ballate, le canzoni e le odi… Gli accenti riescono universali ed assoluti, pur senza tradire i referenti individuali e personalistici di partenza”. Ne consegue che “il doloroso e sublime procedimento poetico è quello di tipo archeologico-personale”.
Aggiunge ancora il critico: “Colpisce, tra l’altro, il reticolo metrico… al cui interno agiscono velati fonosimbolismi che arricchiscono la ricerca quasi pittorica della luminosità descrittiva della memoria”.
La poesia: “Non è più la mia casa” è rigorosamente auto-biografica. “L’atrio di Villa Politi” con la descrizione, quasi nostalgica, dell’interno di una villa liberty, evoca, nei versi conclusivi, l’intima partecipazione dell’autrice alle esperienze esistenziali della madre, collocate in un ambiente in stile floreale, immaginato da lei stessa, adolescente, come scenario della sua vita futura.


Non è più la mia casa

Non è più la mia casa,
quelle mura grigiastre
macchiate d’abbandono
le siepi scheletrite
il muschio nel selciato
un reticolo d’erbe
giallognole e appassite
a intristire la corte
spogliata del nitore
della candida ghiaia.

Non è più la mia casa:
il piccolo giardino
ora è un prato selvaggio
che ricopre e nasconde
le delicate aiuole,
sfondo a sbiadite foto
ed a lontani amori;
e il lillà solitario
ha la dolce mestizia
di un’antica vetrata
in stile libertì.

Non è più la mia casa
quelle pareti spoglie
d’immagini remote
lungamente immutate
serbano tenui impronte
disegnate dal tempo
che, nel lento cammino,
ha lasciato sui muri
orme di nostalgia.

Non è più la mia casa:
umide stanze vuote
come loculi oscuri
celano gli anni spenti
d’ospiti sconosciuti
e le troppe memorie
e i momenti perduti
degli ultimi esiliati.

Non è più la mia casa:
tra quelle vecchie pietre
nuove vite entreranno
cancellando ogni giorno
anche le ultime tracce
d’esistenza disperse.


L’atrio di Villa Politi

Scende dal lucernaio
del soffitto adornato
da cornici massicce
un chiarore soffuso
che riflette le tinte
dei vetri smerigliati
in delicate gamme
dal verde muschio all’ocra.

Emergono dall’ombra
l’imponente camino
incorniciato in marmo
e l’impronta di fumo
sulla parete lignea,
la passatoia rossa
sull’ampia scalinata
che porta, nel soppalco,
alla stanza da gioco
coi tavolini verdi
e i paralumi in seta
dalle frange a perline.

Nel grand’atrio deserto
nell’ora sonnolenta
del primo pomeriggio,
fra tappeti e vetrate
e tavoli ottocento
dalle linee ricurve
e divani incassati
negli angoli in penombra
e lampade sorrette
da figure di donne
entro pepli fluttuanti,
s’insinuano pian piano
le immagini confuse
di un tempo rivissuto
tra racconti e memorie,
di un tempo ritrovato
che faceva da sfondo
nella mia adolescenza
a fantasie segrete
ed evoca ricordi
penosamente vivi
di quegli anni lontani.

E in quella stanza vuota
mi sembra d’avvertire
il profumo sottile
di una cipria francese
che talvolta avvolgeva – malinconia struggente – i passi di mia madre.


Il poemetto: “Le chele dello scorpione”, “straziante melopea nel ricordo di un padre, lontano nel tempo”, come lo definisce Albano Biondi e, secondo la presentazione di Stefano Valentini, “poche intense e splendide pagine che hanno il respiro di una biografia completa, di un ritratto sufficiente a dare compiuta memoria”, si propone di rappresentare la personalità del protagonista, inserita nel suo tempo e nel contesto atavico e familiare, ripercorrendo con particolare intensità quei passaggi esistenziali che, “pur nel differire delle personalità e delle sensibilità individuali, del periodo in cui si collocano, dei miti che le influenzano, recano l’impronta del “tipico”, fragile ponte di collegamento tra diverse isole del vissuto di ognuno” (dalla premessa dell’autrice).
Nel passo riportato viene rievocata la fine del protagonista ambientata nella città (Bologna) dove aveva dovuto trasferirsi, che sentiva sostanzialmente estranea, e si fa riferimento alle fascinose immagini notturne, contemplate, in un lontano passato, insieme ai “discepoli assorti” (le sue figlie e i nipoti); in quello successivo, il padre ritorna nel ricordo nostalgicamente doloroso della figlia.


...la fine del Padre

In una notte chiara,
lui si affaccia al balcone
per rimirare i raggi
bagnati dalla luna
sui tetti declinanti
sulle vie solitarie
sulle finestre spente;
e in quel momento, forse,
sente quella città
un poco più vicina,
statica come lui,
in assorto abbandono,
oggetto di un’estrema
emozione vitale
che esprime un sussurro:
“Come è bella la notte”.
Ed in quella visione
c’era forse il ricordo
della corte schiarita
da quella stessa luna
dove, tanti anni prima,
tra discepoli assorti,
lui era stato il solo
vero protagonista.

Nella notte seguente
di quieto plenilunio
la sua vita è finita


...il Padre nel ricordo della figlia

Padre, per te vorrei
ancora un’occasione,
non in quel paradiso
etereo, evanescente,
congiunto a questo nostro
desolato pianeta
delle tetre stazioni
della Via Dolorosa:
non quello era il tuo mondo.
Tu hai curvato le spalle
sotto la croce, grave
di tante angosce, per sorte
senza scelta, col corpo
confuso con la terra
e la mente librata
in fantasie vitali:
immagini reali
più del reale,
e passato riflesso
dentro la tua memoria,
e intense compresenze,
e amorose pulsioni,
e cieli dai colori
di smalto, e solitarie
marine, ed appartati
giardini, ed inquietanti
salotti, profumati
di fiori quasi esausti;
e la nostra Venezia,
non cristallo cangiante
su azzurrità solari
ma arcana intimità
di corti abbandonate
ed assopite calli
e risciacquio d’ondate
su immagini fuggenti
verso l’ignoto.
Fascino di tramonti,
di presente che sfuma
nel passato,
ma vita e solo vita.
......................
E, nell’umana sofferenza,
io vedo sempre, sempre
il tuo volto.


Il poemetto biografico “Quella Modena di Delfini”, pubblicato quasi contemporaneamente a “I vincenti”, ma lungamente elaborato in un periodo precedente, manifesta, secondo Alberto Bertoni “un’opzione pienamente realizzata a favore della modalità epica (dunque, alla fine, anche civile) della poesia. Non a caso, il punto di vista del libro è, in prevalenza, corale: la parola di un io, colmo di riserbo e pudore, vi si intreccia, infatti, all’eco di dialoghi, di invettive, di sfide e di testimonianze” e “dimostra che l’autrice è consapevole che nell’epos deve essere identificato il vero motore letterario del romanzo”, “ scelta che ha poi compiuto, in fine carriera, un altro grande poeta emiliano, il parmigiano: Attilio Bertolucci”.
Enrico Zanichelli definisce il poemetto come “poesia della poesia, sulla poesia, nella poesia, con la poesia” che “pone il soggetto del testo, l’autrice, sul piano dell’oggetto, lo scrittore modenese, in un intreccio di corrispondenze, espresse e non, di riflessioni speculari, di inversioni automatiche, di rifrazioni inavvertibili, di salti temporali, di scambi prospettici…, simili a quelli che legano Delfini ai suoi doppi della pagina scritta”.
Nei brani seguenti si evidenzia il rapporto di memorie, di emozioni, di sentimenti e risentimenti di Delfini nei confronti della sua città.


...Delfini e la sua città

Ma c‘è anche il signore che, adagiato
nel quieto osservatorio di un caffè,
indaga il rito usuale dei passeggi
di borghesi solerti od annoiati
con sentore di incontri familiari,
o contempla, con qualche compiacenza,
il ritorno di antiche tradizioni,
làscito del dominio degli Estensi
o finge che ogni schermo si dissolva,
oltre gli archi del portico, a scoprire
la città-prato, la città pianura,
l’estenuata verdura della valle,
terra madre dei tempi dei ricordi:
vita trascorsa e vita d’ascendenti.
E la città, proiezione dell’io,
si esalta di colori e di profumi,
in immagini tinte di gaiezza
o soffuse di occulte intimità
nel velario disteso della nebbia.
Dalla tastiera di intense emozioni,
come temi sinfonici tornanti,
riemergono vedute cittadine,
nostalgiche stazioni esistenziali,
radici del suo io sradicato:
i negozi odorosi di colonie
scintillanti di luci e di cristalli,
il bar aperto sempre a carnevale
che profuma le strade di caffè,
il primo sole che riaccende gli ori
sui fregi e sui portali delle chiese,
i porticati fra squarci di cielo,
falci azzurrine frammezzo alle arcate,
il rientro dei ricchi villeggianti
sulle ultime carrozze cittadine,
i giardini del duca ad ospitare
le uniformi di gala dei cadetti,
le disperse stazioni provinciali,
fumiganti di bruma e di vapori,
le folate di vento all’orizzonte
deserto e sterminato della Bassa
e, all’incrocio sperduto, la locanda
e una luce, alonata di foschia,
dalla finestra che scontorna i tratti
del padrone in attesa d’avventori.


...il testimone della città

Sotto estenuate lune nebulose
intravvedute entro strisce di cielo
o nei lenti crepuscoli azzurrati
calati su invisibili orizzonti,
sempre avvertì l’incanto del richiamo
della città, dai ciottoli lucenti
come ancora spruzzati dal fluttuare
di un tortuoso groviglio di canali,
dei bassi porticati tenebrosi
echeggianti il fruscio lieve di passi
e di ignote parvenze fuggitive,
delle facciate appena rischiarate
dalle finestre listate di luce,
ambiguo metaforico messaggio
di cadenzate esistenze deluse,
del centro antico, reso familiare
dalle note figure sconosciute,
ritornanti nei riti dei passeggi,
come mobili effigi di un presepio,
guidate da invisibili ingranaggi.


Argomenti epico-civili sono il cardine della raccolta: “I Vincenti”, ispirata alla guerra in Afghanistan, omaggio alla vittoria ideale,morale e , perfino, pragmatica dei pacifisti.
Profondamente interessata alla politica, intesa soprattutto come preannuncio della storia futura e inflessibile anti-razzista, l’autrice esprime, secondo la prefazione di Salvatore Guastella “attraverso componimenti dai forti toni e contenuti pregnanti, l’oppressione e la sofferenza di interi popoli” e “si fa interprete di messaggi tesi a scuoterci, a scrollarci di dosso quel torpore, ovattato di noia, che si alimenta di programmi televisivi, dispensatori di oppio: ‘panem et circenses’, un gioco propinato ad arte, appunto, per evitare di far pensare”. Si tratta di argomenti complessi “che ci fanno pensare alle tematiche affrontate da Pasolini, anche come cineasta”. “Basti ricordare alcuni suoi film “scomodi”, ad esempio “Appunti per una Orestiade africana” non accettati o ignorati volutamente dai benpensanti”.
Sui brani seguenti:
“Gli esclusi”, ispirato all’incontro ad Assisi dei massimi esponenti delle diverse religioni, in difesa della pace, intende valorizzare l’apporto di lotta e di solidarietà dei non credenti, basato esclusivamente su principi e sentimenti umanitari.
“Un sogno o forse no?” è una metafora del complesso di colpa, più o meno conscio, di chi è, in qualche misura, consapevole che il proprio benessere è pagato dal sacrificio di innumerevoli esseri umani, affetti dall’inedia, dal sottosviluppo, dalle epidemie, in modo particolare, dell’AIDS, definita la peste di questi secoli; da ciò il richiamo alla peste di Milano, di manzoniana memoria.


Gli esclusi

È un graffito solenne e lineare
la Basilica eretta sull’altura
e il brillìo della pioggia che l’esalta
ha l’incanto di tutti gli elementi
laudati e benedetti da Francesco.

Costumi arcaici ed arcaici rituali
gettano sulle lastre del sagrato
schegge di storia, luoghi sconosciuti
in fantasie sognanti ricreati,
incerti passi dentro la speranza,
dubbiose comunanze a confortare
le solitudini di Dio; e sembra
rinnovarsi l’umana condizione,
esultanza dell’essere e pietà
del soffrire, soffuse negli affreschi
estatici di Giotto; una pietà
che intreccia e unisce le segrete vie
dei pellegrini spersi nel pianeta.

Ma al di là di transenne e colonnati,
non hanno un tempio o un cantico o un altare
gli esclusi dalle stelle vorticanti
nell’inesausto anelito all’Empireo,
gli esclusi dai giardini ruscellanti
dono d’Allah alla fine del deserto,
quegli esclusi che affondano il futuro
nell’orrore dell’ultima abiezione,
che non hanno un’icona a rispecchiare
una sembianza somigliante all’io,
che riflettono in acque di palude
equivoche parvenze disamate,
che avvertono la colpa, nell’ambiguo
piacere del possesso, di strappare
ciò che ad altri è negato; unici esclusi
dal povero conforto del perdono
per la vergogna d’essere se stessi.

Per altri Michelangelo ha pensato
i furori e il trionfo del Giudizio,
ad altri gli orgogliosi minareti
e i tramonti su cupole dorate,
ad altri ogni sublime costruzione
che doni un’illusione alla speranza.

Ma la volta del cielo è per gli esclusi


Un sogno, o forse no?

Dall’alto, la vedevo, la navata
tenebrosa, né ampia né solenne,
eppure mi pareva di trovarmi
sospesa dentro il Duomo di Milano.
Su una guglia, pensavo, ma una guglia
non era, che sui tetti delle chiese
stanno le guglie: ero piuttosto dentro
qualcosa di pendente dal soffitto,
una preziosa gabbia di cristallo
colma di fregi eppure trasparente,
che tanto somigliava a una lanterna,
fioca di luce e triste come quelle
riflesse nei canali di Venezia.
...sola e sospesa e forse condannata
come Jago, nel film di Orson Welles
...e innocente, pensavo, ma un barlume
residuo di coscienza mi diceva
che coinvolta ero stata in un complotto
di cui nulla sapevo, né lo scopo
finale,né i mandanti, né i gregari
che erano tanti, questo lo sapevo,
che un mare di lanterne non li avrebbe
racchiusi tutti e non erano forse
né consci né essenziali: ma i mandanti,
dov’erano i mandanti? e perché mai
io solo stavo dentro a una lanterna?
E l’ansia di capire e la paura
di un’iniqua sciagura sconosciuta
mi soffocava come fossi stretta
dentro un cilicio che sempre di più
i muscoli e le carni attanagliava;
ed ansimante e attonita guardavo
quello spazio davanti alla facciata,
quel passaggio di fuga a me precluso
che foscamente lento s’abbuiava.
Il cielo s’era fatto cupo, come
il più cupo dipinto espressionista,
e spenti erano i portici e le insegne
e le finestre e la piazza deserta;
e la navata oscura, più del Duomo
non era, era il grand’atrio di una Banca,
signoreggiante sopra un grattacielo
un lussuoso poliedro di vetrate
che all’improvviso tutte le ricopre
una nerastra plastica avvolgente
che fa un buio assoluto attorno a me,
ridotta ormai una cosa in un involto
che non sa dove andrà né chi la porta;
ma d’un tratto l’incarto, da violente
mani ghermito, è stracciato e squarciato,
con un tetro fragore lacerante,
e con lo squarcio, il silenzio si squarcia
nel crescendo assordante del tinnire
di striduli sonagli che l’arrivo
annuncia di uno stuolo di monatti
che i volto ripugnanti dietro i vetri
appoggiano e ciascuno è accanto e sopra
l’altro come una cupola mostruosa
che si disgrega quando ogni monatto
ad un carro gemente s’avvicina,
che di carri gementi è tutta urlante
la piazza e accumulati in terra stanno
mucchi di corpi bruni, accatastati
i morituri con i morti, e tante
membra infantili e volti scheletriti
e, come su uno schermo gigantesco,
sguardi atterriti vagano nel cielo,
come agghiaccianti fari nella notte;
ma non vedono me, che ben nascosta
in alto sto, dentro la mia lanterna;
eppure il desiderio di svelare
una colpa segreta mi fa urlare
che per le morti loro e per le vite
miserabili tanto che esistenze
non sono stata mai, io provo come
un penoso rimorso, negli anfratti
della coscienza, e chiamo accanto a me
i mandanti impostori a discolparsi,
ma la voce nella gola si strozza
e solo emette flebili lamenti,
e allora busso con rabbia sui vetri,
ma i vetri più non trovo,solo il vuoto,
e il vuoto è un pauroso precipizio,
e su quel vuoto discende e si espande,
col mio silenzio,il silenzio di tutto.
E finalmente ho il dubbio e la speranza
che solo un cupo sogno stia sognando.
....
Al risveglio, riconosco le tracce
di un rapido piovasco che ha lasciato
più trasparente il cielo e più vicina
una falce di luna e più specchiante
la strada che riverbera le luci
di una macchina in corsa solitaria,
troppo veloce perché la conduce
un giovane in ritorno dall’amore;
e m’accoglie il balcone, che non è
una lanterna,coi suoi vasi fioriti,
stillanti fresche gocce sulle mie
ansie. Ma come un tessuto imbevuto,
a fatica si stacca dalle membra,
così addosso rimane avviluppato
il ricordo del sogno; e quel ricordo,
che la pietà confonde col disagio,
persistente si installa nella mente,
anche se mi ripeto che quel sogno
non è che un cespo d’erba distaccato
da un’ondata improvvisa che galleggia
sopra i pensieri come su uno stagno,
non è più che una fuga di visioni,
un mistero intravisto in controluce,
un silenzioso dialogo angosciante,
una colpa rimossa e negli anfratti
del cervello nascosta, un quasi niente,
che certamente è assurdo comparare,
a una qualsiasi cosa, perché un sogno
non è, mi dico, niente più di un sogno
un sogno, un sogno, un sogno:

- o forse no ? –


La raccolta “Le piramidi del Circo” affronta, come sottolinea la prefazione di Oliviero Diliberto, “l’orrore della guerra, del colonialismo, della violenza. L’orrore del cuore umano…e consegna un brandello – di quell’orrore – sotto forma di lirica”. A tale proposito, Diliberto ricorda che “precedenti illustri avevano trascritto in forma poetica la prima guerra mondiale (l’elegia struggente e terribile della trincea di Ungaretti), poi i massacri dei nazisti in Italia (il Quasimodo di “Alle fronde dei salici”). Con la poesia di Serena “giungiamo agli orrori dei giorni nostri, sino all’Iraq” ... “Ecco, dunque, il lacerante grido di dolore di queste liriche, il loro esplicito messaggio … la letteratura può – e secondo alcuni, deve, dovrebbe – svolgere un ruolo prezioso di denuncia”. Tutti i testi che compongono la raccolta si ispirano a tale principio e ricordano: “il lungo monologo finale della “vita di Galileo” (di Bertold Brecht) sul tema della responsabilità dell’intellettuale. A tale responsabilità, grande e terribile, Serena non ha voluto sottrarsi”.
Secondo Angelo Gaccione, in particolare “lo splendido testo di apertura: “Parole al rogo” per efficacia stilistica e forza espressionistica assurge quasi a manifesto letterario”.
Nelle poesie seguenti: “Parole al rogo” è la denuncia della barbarie della guerra preventiva che richiama altri orrori di epoche precedenti.
“Cocktail Iraq” evidenzia gli interessi economici che determinano la guerra in Iraq, come, in generale, tutte le guerre.


Parole al rogo

“La guerra umanitaria non è guerra:
è l’esplosione di una civiltà
che, avvampando, purifica le genti”:
che disgregate sian queste parole,
e scomposte e sconnesse e frantumate
e squarciate e smembrate e stritolate,
che una sillaba sola non rimanga,
né una vocale, né una consonante,
sì che non si congiunga il senso infame
dell’impostura e del plagio letale,
dell’insensata litania di morte;
che sian scagliate nel fetido brago,
e imbrattate e insozzate e calpestate,
estirpate dal cuore e dalle menti,
dalla ragione schernite, oltraggiate
dalle coscienze, dai sensi schifate,
come l’infamia dell’incesto, come
le catene gementi degli schiavi;
che sian bruciate e incendiate e scagliate
ritornino sui nostri capi chini
nel vento fin che ceneri di morte
e i capelli, ingrigiti da improvvisa
vergognosa vecchiezza, testimoni
diventino di un mondo imbarbarito
che si contorce sulla propria fine.


Cocktail Iraq

È un cocktail nuovo, viene dall’Iraq
e si dava per certo il suo successo.
Simili sono gli ingredienti a quelli,
a suo tempo, elencati da Neruda
in un passato lontano e vicino,
perché stessa è la Ditta produttrice.
Semplice la ricetta: per un terzo,
si prenda sangue di donne e bambini,
falciati dalle bombe intelligenti;
vi si misceli, per un terzo, il sangue
dei terroristi, almeno fino a ieri,
divenuti da poco, per variante
del produttore, sangue di ribelli.
L’ultimo terzo è quello più complesso:
c‘è sangue americano, mescolato
a quello proveniente da altri luoghi,
copiosi come i grani di un Rosario.
Nella mistura si immerga un cubetto
di ghiaccio che sussurri, gorgogliando,
“Difendiamo la nostra civiltà”.
Si può, a piacere, aggiungere uno spruzzo
di invettive e di ingiurie di una donna
invasata;si scuota forte il tutto
e l’intruglio è completo ed approntato.

La ricetta sembrava ben studiata,
ma quei profitti, che parevan certi,
ogni giorno si fanno più insicuri,
così da far pensare che le spese
non siano state ben preventivate.
Qualcuno obbietterà: “Ma come?Il sangue
non è merce prezzata sul mercato”.
È vero, ma bisogna pur pagare
i propri donatori, ed addestrarli
e armarli e, senza sosta, motivarli,
perché vadan, persuasi e baldanzosi,
come vitelli a farsi macellare.


Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Avvenimenti
Novità & Dintorni
i Concorsi
Letterari
Le Antologie
dei Concorsi
Tutti i nostri
Autori
La tua
Homepage
su Club.it