Ferrara nella descrizione di Fra Leandro Alberti - dalle origini al cinquecento


Saggio di Silvana Zanella

“Finita la Romagna Cispadana, ò di quà dal Pò, entrerò alla descrittion di quella ch‘è di là”.
Così Fra Leandro Alberti, nella sua “Descrittione di tutta l’Italia e isole ad essa pertinenti”, introduce l’esposizione storico-geografica della, cinquecentesca, Romagna Transpadana.
Fra Leandro Alberti nacque nel 1479 e morì nel 1553, sempre a Bologna. Fu uno storico e geografo domenicano, autore di opere agiografiche e storiche, ma soprattutto della famosa “Descrittione di tutta l’Italia” del 1550, considerata la migliore del suo secolo. In quest’opera di oltre 1200 pagine, con precisione e abbondanza di dati, ci presenta non solo un immenso affresco dell’Italia del ’500, ma ci dà anche accurate notizie storiche di ogni luogo e città, offrendoci una visione che potremmo definire tridimensionale del nostro paese. Lo stesso Alberti descrive così gli intenti del suo straordinario lavoro:
“Nella quale (opera) si contiene il sito di essa (Italia), l’origine, e le Signorie delle Città, e de castelli; co i nomi antichi, e moderni; i costumi de popoli, e le condizioni de paesi. Et di più gl’Huomini famosi, che l’hanno illustrata; i Monti, i Laghi, i Fiumi, le Fontane, i Bagni, le Miniere, e tutte l’opere maravigliose in lei dalla Natura prodotte”
Esistono molte edizioni del libro dell’Alberti, una delle più precise e complete, ed anche in certe parti più vicina all’originale perché purgata degli errori di stampa, è quella riveduta e corretta da Messer Borgaruccio Borgarucci, stampata “In Venetia , Appresso Gio. Battista Porta, M D L X X X I”, accresciuta inoltre degli avvenimenti fino al 1581. Le integrazioni del Borgarucci sono comunque facilmente riconoscibili perché contrassegnate a margine da una piccola croce.
L’Italia del ’500 che l’Alberti ci presenta è divisa in diciannove regioni: Riviera di Genova – Liguria, Toscana – Hetruria, Ducato di Spoleto – Umbria, Campagna di Roma – Latium, Terra di Lavoro – Campania Felix, Basilicata – Lucania, Calabria Inferiore – Brutij, Calabria Superiore – Magna Graecia, Terra d’Otranto – Salentini, Terra di Barri – Apulia Peucetia, Puglia Piana – Apulia Daunia, Abruzzo – Samnites, Marca Anconitana – Picenum, Romagna – Flaminia, Lombardia di qua dal Po’ – Emilia, Lombardia di là dal Po’ – Gallia Transpadana, Marca Trivigiana – Venetia, Frioli e Patria – Forum Iulij, Istria. Comprende inoltre le Picciole isole del mar Ligustico, le Isole del mar Tosco e Tirreno, del mar Siciliano e del mar Adriatico.
Nel descrivere la Romagna, quartadecima regione, l’Alberti ci spiega innanzitutto che il suo nome risale all’epoca dell’Imperatore Carlo Magno che, dopo averla riconquistata ai Longobardi e imprigionato il loro re Desiderio, la restituì a Papa Leone III.
Et perché Ravenna insieme con quell’altre città di questo paese si eran sempre dimostrate fedeli alla città di Roma, e arditamente haveano combattuto per quella, e per lo Pontefice, volse il Pontefice col nuovo Imperatore, che fosse tutta questa Regione addimandata Romagna. Et così dall’hora in qua ella talmente è stata nominata.
Precedentemente, secondo Tolomeo (II sec. d.C.), il territorio compreso tra il Rubicone e la città di Piacenza aveva l’appellativo di Gallia Togata, perché i Galli, Senoni e Boii, abitatori di questi luoghi, essendo venuti in contatto con la civiltà romana, ne avevano assorbito le abitudini.
L’Alberti traccia poi i confini della suddetta Romagna:
Sarà adunque la sua lunghezza dalla Foglia al Panaro; e la larghezza dal monte Apennino al mar Adriatico, et etiandio la Padusa palude di quà dal Pò, e oltra al Pò, le paludi de’ Veronesi, e Padoani, infino alle Fornaci con parte del mare Adriatico dal Settentrione.
La scinde infine in due parti: la Romagna Cispadana e la Romagna Transpadana o di là dal Po.
I confini della Romagna Transpadana sono:
Dall’Oriente il mare Adriatico, cominciando da Primaro, e trascorrendo alle Fornaci. Et quindi seguitando, le paludi de’ Padoani, Vicentini, e Veronesi, dal Settentrione, et parte dell’antidette paludi infino al Po’: dall’Occidente, e dal Mezogiorno esso Po’.
Scrivono, secondo l’Alberti, Polibio (201-120 a.C.), Livio (59 a.C.-17 d.C.) e Plinio (23-79 d.C.) che essendo diventati gli Hetrusci molto potenti, attraversarono l’Appennino e si stanziarono in tutta la Romagna, di qua e di là dal Po, tranne una piccola zona, presso il mare, abitata dai Veneti venuti dalla Paflagonia. Qui edificarono dodici città a somiglianza di ciò che avevano già fatto in Toscana.
I Toscani furono poi scacciati da popolazioni celtiche durante successive invasioni. Per primi giunsero gli Anani, poi i Boii. Gli Egoni ad Adria e per ultimi i Senoni, che passarono di là dal mare. Come scrive Polibio nel 2° libro:
Qui autem ultra Padum circa Apenninum, primi quidem Ananes, post autem, hos, Boy habitaverunt; post hos autem secuti ad Adriam Egones, ultra mare Senones.
I Galli, giunti d’Oltralpe, invasero tutta la Pianura Padana, perciò detta Gallia Cisalpina, compresi i territori che attorniavano il corso terminale del Po. Vinsero le popolazioni etrusche lì stanziate nella battaglia del fiume Tesino, come narra Livio nel 5° libro. E Sena divenne la loro città più importante. Anche i Celti furono però, a loro volta, successivamente scacciati, o soggiogati, dall’espansione dei Romani.
( Il Cav. Sertorio Orsato del Serenissimo Senato Veneto, nella sua opera Li marmi eruditi del 1669, ci dice che la Gallia Transpadana ottenne lo Ius Latii, delle Colonie Latine, dal Console Gneo Pompeo Strabone, nell’anno di Roma 664, dopo la guerra Marsica, come testimonia Isacio Casaubono nei Commentarii: Gallos Cisalpinos, Transpadanos, quibus ius Latii post bellum Marsicum lege Pompea datum fuerat.
Nell’anno di Roma 804 poi, Giulio Cesare, divenuto Dittatore, concesse alla Gallia Transpadana la Cittadinanza Romana. Infatti Dione (Cassio Cocceiano, 155-230/240 d.C.), nel 41° libro dell’Historiae, scrive parlando di Cesare: Gallis Trans Padum civitatis ius dedit.
Tacito, nel 2° libro degli Annales: Transpadani in civitatem recepti. N.d.A.)

L’Alberti giustifica l’aver posto nella Romagna Transpadana sia il territorio ferrarese sia l’attuale Polesine proprio perché i Veneti non scesero mai sotto il Ladice (L’odierno Adige N.d.A.), mentre tutti i territori a sud di questo fiume furono colonizzati prima dai Toscani, poi dai Galli e infine dai Romani. A sostegno di questa tesi cita sia Plinio, terzo libro, che Livio, quinto libro.
Ci spiega, inoltre, come il corso del Po anticamente fosse molto diverso da come si presentava nel ’500 (E ugualmente da come lo vediamo noi oggi N.d.A.).
Secondo Polibio, il Po scendeva con un unico corso presso il ponte di San Giorgio fino a Coderea, già detta Caput Eridani secondo Peregrino Prisciano (XV sec.) nel I libro dell’antichitati di Ferrara. Qui si divideva in due rami, l’uno correva molto tortuosamente, ma con un breve corso, fino alla contrada di Quatisano, poi entrava nelle salmastre Paludi di Comacchio. Questo ramo era detto dagli antichi fiume Vergente. L’altro passava per Vigouentia e poi sfociava nella Padusa palude. Ma entrando nella contrada di Cosandolo, da Capo di Sandolo, ne prendeva il nome. Questo ramo era perciò chiamato del Pò Sandolo.
Allora non esisteva ancora il ramo detto Pò della Torre della Fossa (L’odierno Po morto di Primaro N.d.A.), che si divideva poco prima del ponte di San Giorgio e passava per Torre della Fossa. Questo ramo fu creato nel 709 d.C., durante l’impero di Giustiniano II e sotto il pontificato di Costantino I. Fu proprio questo Papa che, non potendo più sopportare l’arroganza di Felice, Arcivescovo di Ravenna, chiese aiuto all’Imperatore. Questi mandò il suo capitano Theodoro con l’esercito contro Ravenna. Quando Felice fu informato, decise di far tagliare il Po sotto Ferrara e di creare il letto del ramo che passa per Torre della Fossa. In questo modo fece entrare una maggiore quantità d’acqua nella palude Padusa ed innalzò il livello nei campi attorno a Ravenna. Impedì così che Teodoro potesse raggiungere la città. Questo episodio viene narrato da Biondo (Flavio, 1392-1463) nel 10° libro dell’historie.

F. BERLINGHIERI “De Geografia”
Miniatura che raffigura il Nord Italia (XV secolo) particolare
Milano, Biblioteca Nazionale Braidense

Molto più tardo sarebbe poi il corso del Po che passa a nord di Ferrara. Questo ramo, molto ricco d’acqua (L’attuale corso principale del Po N.d.A.), si sarebbe creato in seguito alla Rotta di Figaruolo.
Peregrino Prisciano scrive di aver veduto un’antichissima Cronica di Ferrara, la stessa che anche l’Alberti dichiara di aver vista a sua volta nel 1536, grazie alla benevolenza del letterato ferrarese Messer Battista Papazzone dalla Mirandola. Vi si narrava che, correndo l’anno dell’humana salute 1150, ò poco meno (1152 in realtà N.d.A.), la contrada di Ruina fosse divenuta molto popolosa e ricca. Ed essendo invidiata dai suoi vicini, questi pensarono di farla sommergere dalle acque del Po tagliando l’argine a Ficarolo. I poveretti videro sparire tutti i loro beni e fuggirono, ma anche la città di Ferrara ebbe di ciò un gran danno. Dopo due anni di strenui tentativi, non riuscendo a riportare il corso del Po al suo precedente letto, i ferraresi decisero infine di fermare le acque alzando gli argini attorno al nuovo corso, ugualmente con grave spesa e grande fatica. Si creò così il terzo ramo del Po, che essendo molto ricco d’acque ne creò a sua volta, successivamente, un quarto che sfocia verso nord alla bocca detta delle Fornaci, dal nome di una Taverna lì posta, secondo Biondo.
L’Alberti, oltre al Po, ci descrive anche il Ladige che anticamente non si presentava con un unico corso, ma si suddivideva in vari rami, formando a Nord ampie paludi. Le sue ramificazioni (Adigetto, Gorzon, ecc. N.d.A.) però, prima di giungere al mare, si riunivano al corso principale.
Plinio poi, nel 15° capo del 3° libro, secondo l’Alberti, ci parla della Fossa Messanicia che era lunga 12 miglia e collegava il Po a Ravenna, permettendo alle imbarcazioni di passare dalla città al fiume e poi di risalire fino a Ferrara.
Inoltre, tra Ferrara, Bologna e Ravenna, nel territorio che va dal Po alla via Emilia, per una lunghezza di 50 miglia, si estendeva la Padusa palude, che traeva il suo nome da Padus, il Po, che scorreva lì accanto. Questa era formata dai fiumi che scendevano dall’Appennino, i quali, non riuscendo a sfociare nel Po, il cui corso era più alto, trasformavano questa vasta conca in una profonda palude.
L’Alberti racconta però che già nella sua epoca, da circa cinquant’anni, quei luoghi si erano progressivamente asciugati. Ed era cosa veramente strana vedere campi coltivati dove prima nuotavano i pesci. Ciò era avvenuto per l’innalzamento delle terre dovuto ai detriti trasportati dai fiumi giù dalle montagne, che erano state disboscate per le necessità dell’agricoltura. Ercole I d’Este in seguito costruì dei canali per essiccare tutta la zona chiamata Samartina. Similmente fecero il bolognese Ippolito Piatese e i Lamberti di Poggio. Infine tutta la palude Padusa si bonificò quando il Duca Ercole permise che il fiume Reno sfociasse nel Po, quattro miglia prima di Ferrara. Talmente fu essiccata da questo lato, che da Ferrara a Bologna si passava con le carrette, e a piedi, per detti luoghi, già pieni d’acqua, hora detti Traversia, conciosia cosa c’avanti bisognava passare (volendo caminar per terra) dall’Occellino per le valli.
Purtroppo nel 1542 Ercole II, poiché il Reno aveva rotto gli argini vicino alla città, non volle più che questo sfociasse nel Po. Così la Samartina, la Traversia e Raveda furono di nuovo invase dalle acque. Tutti ne ebbero un gran danno, ma Ferrara in particolare. Alla fine, dopo varie contese con i Bolognesi, il Duca lasciò di nuovo che il Reno si gettasse nel Po. Oggigiorno quelle terre sono per fortuna risanate e producono grandi quantità di frumento e biade, dice l’Alberti.
Tornando al Po in epoca antica, a Sud di questo si trovava il Borgo di San Georgio, così detto dalla chiesa di San Giorgio. Mentre tutta la zona prendeva il nome di Polesino di San Giorgio.
Qui abitarono i Trigaboli Toscani, una popolazione etrusca, poi i Galli Egoni, che fondarono Vicouenza, da Vicus Egonum, infine questo territorio fu occupato dai Romani. E proprio sulle rovine di questa città, che si trovava allora sulle rive del Po Sandolo, edificarono un castello chiamato Forum Alieni. A testimonianza di ciò l’Alberti cita Cornelio Tacito (55-120 d.C.), che parla di Fornm Alieni nel 19° libro delle historie narrando le cose fatte da Vitellio e da Vespasiano dopo la morte di Ottone, nell’anno 71 d.C. Come pure fa Giovanni Boccaccio (1313- 1375) nel libro de i fiumi, parlando del Po. La sua descrizione, però, all’Alberti sembra sia stata manomessa perché pone la città romana nello stesso luogo dove sorge Ferrara, mentre Forum Alieni si trovava alla destra del Po. Ciò sarebbe confermato da Peregrino Prisciano che, nel I libro dell’antichitati di Ferrara, racconta di un’antichissima pittura d’Italia, la quale si vedea nel vescovato di Padoa ne’ tempi di Giacomo Zeno Venetiano Vescovo di detta città, che fu donata à gli oratori de i signori Venetiani nel conciliabulo di Basilea. Alla destra del ramo di Primaro si vedeva Ostilia, dopo 54 miglia, sempre sulla riva destra, Forum Alieni, e dopo un uguale spazio Ravenna. Se ne deduce che la città romana coincideva più con il sito di Vicovenza che con quello di Ferrara.
L’Alberti ritiene che gli abitanti di Forum Alieni si siano trasferiti, ad un certo punto, presso il Borgo di San Giorgio (Non spiega però né quando, né perché N.d.A.). Questa comunità si ampliò e prese il nome di Ferrariola, dalla Fossa Ferrariola che scendeva verso Consandolo ed entrava nella palude Padusa. trasformando la zona in un’isola.
La prima menzione ufficiale di Ferrariola la ritroviamo in un documento che era conservato negli Archivi dei Marchesi d’Este, secondo la diretta testimonianza dell’Alberti che afferma di averlo visto di persona:
Anno ab incarnatione Christi IIII.XXV. Theodosius secundus minor Arcadii filius, et nepos Theodosii imperavit annis XXVII. Hic Theodosius studium Bononia dedit, et Ferrariolam ultra Padum transferri mandavit.
Nel 425 d.C. l’Imperatore Teodosio Giuniore concede a Bologna il privilegio dello Studio generale (L’Università N.d.A.) e a Ferrariola, di poter passare, dopo due anni, a Nord del Po. La medesima cosa è citata nel Privilegio dello studio di Bologna, concesso dallo stesso Teodosio II. E secondo l’Alberti furono proprio gli abitanti di Ferrariola a chiamare il nuovo centro abitato, che si stava sviluppando di là dal Po, Ferrara. (Ciò è confermato anche da antichi documenti conservati nella chiesa di San Giorgio, nei quali si affermerebbe che Ferrariola è la Ferrara antica. N.d.A.)
Pur ritenendo questa l’ipotesi più valida, l’Alberti ci offre una carrellata delle teorie sulla fondazione di Ferrara secondo i vari autori. Gabriel Venetiano nel capo 37 de gli annali di Venetia, dice che fu edificata, insieme con molte altre città d’Italia, dai Troiani. Ma poiché risulta l’unico a dirlo, la sua opinione non ha molta autorità, precisa il nostro autore.
Interviene qui Borgaruccio Borgarucci, integrando le informazioni dell’Alberti. Ci spiega che secondo altri scrittori nei territori attraversati dal Po esistevano allora molte paludi e, tra queste, zone incolte ricche di macchie d’alberi e d’arbusti, dette fratte. Quando giunse Attila, che seminava terrore avendo già distrutto Aquileia, gli abitanti di queste terre lasciarono le loro case e si rifugiarono presso le fratte, dove poi costruirono case e spesso rimasero. Il nome di Ferrara deriverebbe da Fratta, trasformata con un suono più dolce in Ferrara.
Celio Calcagnino (Calcagnini, 1479-1541) ritiene che il nome della sua città derivi dall’epoca delle invasioni barbariche, quando qui abitava un ferraro, cioè un fabbbricante d’armi, molto richieste per difendersi.
Altri ancora dicono che prenda il suo nome da Ferat, nipote di Noè, uno dei dodici Capitani venuti in Italia dopo il Diluvio Universale. Ma, secondo Borgarucci, tutti gli autori vorrebbero far risalire l’origine delle loro città dai nipoti di Noè.
Infine alcuni pensano che il nome di Ferrara derivi dal ferro che la città doveva pagare annualmente alla Chiesa di Ravenna come tassa. Proprio come il nome di Argenta deriva dall’argento che versava.
(L’ipotesi più probabile è che Ferrariola, e poi Ferrara, traggano il loro nome dai Ferrari o Marescalchi, a proposito dei quali però credo sia utile riportare ciò che scrive Thomaso Garzoni nel suo La Piazza Universale di tutte le professioni del mondo, del 1588, nel titolo De’ fabri in generale: All’ultimo vengono i Ferrari o Marescalchi i quali son chiamati medici da cavalli da Giovanni de Platea sopra il Codice. Et l’arte loro si dimanda Veterinaria, e tratta in universale della medicina di animali brutti, benche di cavalli potissimamente. – Et Virgilio ne ha favellato particolarmente nel terzo della Georgica –. Santo Antonino nella terza parte della sua Somma al Titolo ottavo dice – essi si sogliono intrometter nelle compre, e nelle vendite di mule, di asini, di cavalli, intendendosi loro communemente di questi animali – Et è essercitio assai honorevole. Si potrebbe pensare quindi che Ferrariola fosse un luogo conosciuto perché vi abitavano questi ferrari, che curavano e commerciavano animali, tanto da trarne il suo nome. Ancora oggi esiste in effetti a Ferrara il Foro Boario, a Sud del Po, adibito, fino a pochi decenni fa, a mercato di bestiame. N.d.A.)
Peregrino Prisciano sostiene che Ferrara sarebbe stata edificata dove un tempo esisteva la città di Trento da Tolo, poi detta Nuentum, ma mi par di lungo s’inganni. Esisteva tuttavia veramente nei tempi antichi, sulla riva sinistra del Po il castello detto Inuentum o Nuentum, togliendo la prima sillaba, citato dal Boccaccio parlando dei fiumi. E sarebbe stato sulle rovine di questo che gli abitanti di Ferrariola avrebbero poi edificato Ferrara.
A questo punto s’inserisce ancora Borgaruccio Borgarucci e ci spiega che prima infatti non aveva tale nome, secondo quanto dicono Biondo e Sabellico (Marcantonio, 1436-1506) nel 9° libro della 7° Enneade. Narrano che quando Stilicone, console e capitano dell’esercito dell’Imperatore Arcadio, venne in Italia per combattere Alarico, re dei Goti, vide in quel luogo, presso il Po, soltanto una contrada senza mura e senza nome. Era circa il 408 d.C..
Nel 595 d.C. poi, Ferrara fu circondata di mura da Smaragdo, Esarco dell’Imperatore Maurizio, secondo l’opinione di Biondo e di Rafael Volaterrano nella sua Geografia.
Nel 658 d.C., essendosi molto ampliata, ottenne il titolo di città da Papa Vitaliano durante il regno di Costante II. Questo stesso imperatore decise di trasferire il Seggio Episcopale da Voghenza alla nuova comunità, nell’Isola di San Giorgio, che divenne Suffraganea della Metropolitana sedia Ravennate, come era scritto nei documenti della Chiesa di Ravenna, mostrati al Borgarucci dallo scrittore Giovan Pietro Ferretto, investigatore degli antichi Annali della sua città.
Gli abitatori di Ferrariola, inoltre, poterono costituire una Repubblica di dodici Masse, così nominate per l’habitationi massate insieme, cioè ragunate.
Esse erano: Villa Aventina, Massa di Polarolo, Quatisana di Donore, Formignano, Vico Variano, Curiolo, Coparo, Rompiola, Petroio, Scramaie, Trente e Senetica.
Ferrara ottenne molti privilegi e fu sottoposta al Vescovo Martino Romano, che però visse a Pieve, dove morì e venne sepolto nel 670 d. C., secondo Petrarca (1304-1374) nei suoi Pontefici.
Fra Leandro Alberti così ci descrive la città:
Ella è questa città posta sopra la riva del Po’, che la bagna dall’Oriente, e dal Mezogiorno, bella d’edificii tanto dedicati ad Iddio, quanto per habitatione de i signori, e gentil’huomini; di grossa aria per esser posta in questi luoghi paludosi, e abbondante delle cose per il vivere degli huomini. Imperò che si trae del suo territorio gran copia di frumento, vino (ma però picciolo) orzo, spelta, e altre biade, e frutti d’ogni maniera. In essa sono molte e nobil famiglie, e ricche.
Mentre il Borgarucci aggiunge:
Et tanto è ella accresciuta, e ornata, che fra le prime città d’Italia al presente si può annoverare.
Di Ferrara Faccio degli Uberti nel 1° Canto del 3° libro Dittamondo dice:

Ferrara lungo tempo il Po’ l’affronta,
La gente volentier, la sua famiglia,
Per il buon porto, che quivi si conta.

Inoltre Borgaruccio Borgarucci scrive che fu Federico II, in dispregio dei bolognesi, che le concesse lo Studio generale (Ma la cosa è poco probabile, perché l’Università fu concessa ad Alberto d’Este da Papa Bonifacio IX, nel 1391 N.d.A.). Fin dai suoi esordi la città fu fedele agli Imperatori, ai Pontefici romani e agli Esarchi, aiutando spesso questi ultimi contro i Longobardi. Longobardi dalle loro “lunghe barbe”.
La città di Ravenna, dopo aver scacciati i Goti, fu governata dagli Essarchi mandati in Italia dall’Imperatore di Costantinopoli. Il loro nome significa “supremo magistrato” ed essi avevano voce nell’elezione del Papa. Il primo fu Longino, inviato da Giustiniano nel 557 d.C., al quale successe Smaragdo. Secondo Biondo, questi Magistrati, 16 in tutto, governarono fino al 732 d.C. e il loro Esarcato andava dagli Appennini, alle paludi veronesi e vicentine, fino al mare. Ma tutta questo territorio venne conquistato da Astolfo, Re dei Longobardi. Fu vinto poi da Pipino, Re di Francia, che lo obbligò a consegnare Ravenna alla Chiesa Romana. Quando Pipino se ne andò, ritornarono Astolfo e il suo successore Desiderio, ma furono infine definitivamente scacciati da Carlo Magno che restituì l’Esarcato alla Chiesa. E Ferrara con questo.
Nei secoli successivi la città fu fedele ai Pontefici finché gli Imperatori germanici non riconobbero l’autorità della Chiesa. Poi seguì ora gli uni e ora gli altri, e eziandio alcuna volta non diede ubbidienza né all’uno né all’altro.
Inizia ora la parte agiografica dedicata ai Marchesi da Este. è il Borgarucci ad occuparsi della ricostruzione delle origini del casato, cosa non certo agevole perché, come ammette, vi è notevole discordanza fra i vari autori sui primordi della famiglia estense.
Secondo quanto scrive Mario Equicola (1470-1525) nell’historie Mantoane, nel 903 d.C., sotto il regno di Berengario I, l’Italia era tiranneggiata da Sigisberto, signore di Lucca e poi di Parma e Reggio. Costui aveva origini longobarde, perché era parente di Gottifredi, marito di Matilda, che era Longobardo.
Sigisberto ebbe tre figli, ma ne visse solo uno, detto Atto o Azzo, che abitò a Canossa e la fortificò. Qui fu a lungo assediato da Berengario, ma per fortuna venne in suo soccorso Ottone I di Sassonia. Sigisberto ebbe due figli: Tedaldo e Sigisbertazzo, dai nomi del nonno e del padre, detto Albertazzo. Questo fu mandato dal padre al seguito di Ottone I che gli si affezionò e lo tenne in grande considerazione. Tanto che quando tornò in Italia lo nominò Marchese e gli fece dono di Calme, Monselice, Montagnana, Arquà e Este. Sposò la Magna Alda, figlia naturale dell’Imperatore ed ebbe due figli Folco e Ugo. Il primo rimase in Germania con la madre, il secondo scese in Italia col padre e gli successe nei possedimenti padovani. Suo figlio primogenito, Tedaldo, ottenne Ferrara da Papa Giovanni XII, come scrivono Polistoro e Ricobaldo (Gervasio, XIII-XIV sec.).
(Per interrompere la lunga, e un po’ monotona, teoria dei Marchesi d’Este, vale la pena di raccontare le vicende di Papa Giovanni XII e di Ottone I, secondo quanto ci riferisce Franco Mistrali nel suo I misteri del Vaticano, opera del 1861. Giovanni XII, uomo ambizioso e di grande ingegno, divenuto Papa in giovane età, mal sopportava che Berengario spadroneggiasse in Italia e mettesse persino a rischio la sua sede. Si rivolse allora ad Ottone I di Sassonia affinché vendicasse i torti da lui subiti, promettendogli in cambio la corona imperiale. In cuor suo era convinto che fosse un sovrano abbastanza forte per difenderlo, ma che avesse un regno troppo lontano per poter restare ed esercitare il potere. Così avvenne che Ottone scese in Italia, vinse Berengario e fu eletto Imperatore. Ma Giovanni XII si accorse ben presto di essersi sbagliato, perché Ottone tenne saldamente il governo e trattò lui da sottoposto. Inoltre pretese di interferire nel suo potere e di limitarlo nella sua vita sregolata. Per vendicarsi, appena Ottone lasciò Roma, si accordò col figlio di Berengario e lasciò che questi massacrasse la guarnigione germanica lasciata a guardia della città. Quando poi Ottone tornò in Italia, aizzò contro di lui tutta Roma, assoldò truppe e chiamò in suo aiuto perfino i Saraceni. E probabilmente avrebbe avuta vinta la partita contro Ottone se non fosse rimasto vittima della sua dissolutezza. Infatti una notte fu sorpreso a casa della sua amante, certa Stefanetta, dal marito di lei infuriato. Cercò di fuggire dalla finestra, ma cadde e rimase ucciso. N.d.A.)
Di Tedaldo possiamo ricordare che fece costruire presso il Po Castel Tedaldo. Morì nel 1007. Ebbe tre figli: Bonifacio, primogenito, Tedaldo, che divenne Vescovo di Reggio, e Corrado, dal quale sono discesi i signori da Canossa. Bonifacio invece sposò Madonna Beatrice, sorella di Enrico di Sassonia, ed ebbe due figli maschi, che però morirono in giovane età, e una femmina, Matilda. Quando Bonifacio morì, nel 1052, questa, a soli cinque anni, ereditò tutte le sostanze del padre. Sua madre, saggiamente, la diede in sposa a Gottifredi, Duca di Spoleto. Insieme col marito, Matilda andò poi a Roma in aiuto di Papa Alessandro II e quando Gottifredi morì si risposò con Azzo da Este, figlio di Aldobrandino. Purtroppo questo matrimonio venne sciolto da Gregorio VII, perché si scoprì che gli sposi erano imparentati fra loro. Malgrado le loro suppliche, il Papa non volle dispensarli, come scrivono Biondo e Platina (Bartolomeo Sacchi, 1421-1481) nella vita di Gregorio, perciò, obbedientemente, si dovettero separare. Matilda morì all’età di 69 anni, circa nel 1115, anche se le opinioni dei vari autori non sono concordi.
Dopo la morte di Matilde di Canossa, Ferrara rimase sotto il governo della Chiesa per molti anni (Nel 1135 venne costruita la Cattedrale N.d.A.), finché Albertazzo d’Este, riuscì a diventare il primo Signore della città. I Marchesi d’Este erano diventati, nel frattempo, potentissimi.
Albertazzo era figlio di Azzo, uno dei tanti che si trovano nominati nelle Cronache dell’epoca. Gli successero Azzo II, Azzone e Aldobrandino, nel 1210. Doveva succedere poi Azzo III, ma nel frattempo era diventato tiranno della città Salinguerra de Goramonti, aiutato da Azzolino da Romano (Ezzelino III il feroce, 1194-1259) e col favore di Federico II, nemico della Chiesa. Il potere venne infine però ripreso da Gregorio Monte Longo, Legato di Innocenzo III, che investì Azzo III del Vicariato di Ferrara nel 1213.
Gli successe Obizzo, figlio di Rinaldo, che morì nel 1293. Seguì suo figlio, Azzo IV, che nel 1307 fu imprigionato dal suo stesso figlio, Frisco, per essersi risposato dopo la morte della prima moglie. Morì in prigione, mentre Frisco cercava di insediarsi nella città. Chiese aiuto ai Veneziani, che per questo furono scomunicati dal Cardinal Pelagura, Legato pontificio. Costui radunò un esercito e, con l’aiuto dei Bolognesi, riconquistò Ferrara nel 1308. Frisco cercò di fuggire, ma venne massacrato dai suoi concittadini. Nel 1312 fu ucciso anche il Marchese Francesco da Dalmasio che reggeva la città per conto della Chiesa.
Nel 1317 divenne Signore Opizzo che, con l’aiuto dei Signori di Mantova e di Modena, Prese Argenta. Poi, nel 1332, inviò suo figlio, a Bologna presso il Legato Pontificio. Dopo molte discussioni restituì Argenta all’Arcivescovo di Ravenna, come dice Corio. Ma successivamente ottenne Ferrara, Modena e Argenta dai Legati di Benedetto XII, con l’obbligo di versare ogni anno alla Chiesa Romana 10.000 fiorini d’oro per questo feudo. Opizzo morì nel 1352 lasciando tre figli che gli succedettero uno dopo l’altro. Aldobrandino, che morì nel 1361. Niccolò II detto Zoppo, che fu un abile combattente e grande difensore della Chiesa. Abbellì inoltre la città con sontuosi edifici (Il Castello di San Michele, oggi Castello Estense N.d.A.). Morì senza figli nel 1388. Gli succedette Alberto, al quale seguì, nel 1390 un altro fratello naturale di nome Niccolò III, ancora fanciullo. Il suo potere fu insidiato da Azzone IV da Este, suo cugino carnale, perché non era figlio legittimo. Ma fu mantenuto nella Signoria dai Veneziani, Fiorentini e Bolognesi. Col loro aiuto fece prigioniero Azzone e lo mandò in esilio a Creta. Divenuto adulto fece uccidere Ottobone III, Tiranno di Parma e Reggio, da Sforza Attendolo e s’impossessò di Reggio.
Così Borgarucci lo descrive:
Fu Niccolò huomo saggio, prudente, magnanimo, e di grand’ingegno; A cui altra cosa non parea mancare, eccetto le lettere.
Fece rinsaldare la Rocca di Figaruolo, già fortificata da Opizzo nel 1349, per poter tirare una catena di ferro, sopra il Po, da quella fino a Stellata. Inoltre Papa Eugenio IV iniziò, sotto la sua Signoria, il Concilio di Ferrara, ma lo dovette poi trasferire a Firenze a causa della peste, malgrado fossero giunti da Costantinopoli l’Imperatore Giovanni Paleologo e il Patriarca con un gran seguito. Morì a Milano nel 1440, dopo aver retto la città per 47 anni. In suo ricordo venne innalzata sul portone del palazzo dei Signori di Ferrara una statua equestre, la quale infino ad oggi si vede.
Il Borgarucci ci spiega che Niccolò ebbe tre mogli. Dalle prime due, non ebbe figli, mentre dalla terza dei Marchesi di Saluzzo nacquero Ercole e Sigismondo. Ebbe comunque molti altri figli naturali: Lionello, Meliadusse, Borso e Alberto.
(Borgarucci, come pure l’Alberti, sembrano ignorare la celeberrima vicenda di Ugo e Parisina. Il primo era figlio di Niccolò, l’altra, Parisina Malatesta, 1404-1425, era la sua seconda moglie. La storia dei due sfortunati amanti, colti in flagrante e fatti decapitare da Niccolò, ci è pervenuta, più d’un secolo dopo, in un racconto di Matteo Bandello (1485-1561), inserito nelle sue Novelle, in base a quanto, egli afferma, gli fu narrato direttamente da Bianca d’Este, nipote di Niccolò, a Milano.
Il Bandello assicura che Ugo, conte di Rovigo, era figlio di Gigliola da Carrara, prima moglie di Niccolò, e quindi figlio legittimo. Mentre molti altri, tra cui Antonio Frizzi nelle Memorie per la storia di Ferrara, del 1850, pensano che fosse il primo figlio illegittimo, nato da Stella de’ Tolomei, detta anche dell’Assassino. Inoltre Camillo Laderchi, che annotò le Memorie del Frizzi, aggiunge alla storia un fatto inedito, tratto dalla tradizione popolare, che pare fosse inserito in alcune pagine mancanti del calendario di San Francesco del 1425. Vi sarebbe stato scritto che Parisina era stata chiesta in sposa inizialmente per Ugo, che già l’amava, ma che poi Niccolò se ne era invaghito. Avrebbe perciò ingannato entrambi i giovani, con lo scopo di dividerli ed infine avrebbe preso Parisina per sé. Ma una volta che i due ragazzi si erano ritrovati la passione era di nuovo sbocciata irrefrenabile. N.d.A.)
A Niccolò III succedette nella Signoria Lionello, figlio naturale di Stella dell’Assassino. Fu uomo colto, prudente e di grande intelligenza. Temendo che Ercole e Sigismondo, i figli naturali di Niccolò ancora giovinetti, potessero comunque nuocergli, col pretesto di istruirli nelle pratiche di corte, li inviò a Napoli da Alfonso I d’Aragona.
Lionello fece circondare la città di mura dalla parte del Po, fece ampliare le contrade, lastricò le strade di mattoni e fece costruire il Monasterio de gli Angeli, dal quale sarà poi chiamata l’antica Via de gli Angeli (Ora Corso Ercole I d’Este N.d.A.). E dove volle essere sepolto alla sua morte, nel 1450. Da sua moglie, Giovanna Gonzaga, ebbe un solo figlio Niccolò. Essendo però questo ancora fanciullo, nella Signoria gli succedette il fratello Borso, con la promessa che l’avrebbe poi lasciata al ragazzo quando fosse divenuto adulto.
Borso fu piacevole, magnifico, liberale, virtuoso, e di grand’animo. Appena s’insediò al potere fece subito richiamare Ercole e Sigismondo da Napoli e li fece crescere insieme con Niccolò, figlio di Lionello, e tutti li trattava come suoi figli. Fu stimato da tutti i Signori d’Italia, da Papa Paolo II e dall’Imperatore Federico III. Visitò Roma e fece costruire il Monastero della Certosa nel Barco, dove volle essere sepolto quando morì, nel 1471, dopo 21 anni di regno.
Il Borgarucci ci racconta anche che Borso fu un generoso mecenate per gli uomini di lettere, che tenne in grande considerazione presso la sua corte. Come il poeta fiorentino Tito Strozza, il poeta lirico Giovanni Arspa e un tale Ugo, eccellente medico. Inoltre etiandio pigliava gran piacere d’uomini faceti. Come il buffone Gonella le cui facezie pare fossero conosciute in tutte le corti d’Italia, e Fra Bertoldo di San Domenico, uomo religioso e virtuoso, ma dotato di spirito allegro e gioviale, oltre che di un fisico così possente che nessuno riusciva a spostarlo quando se ne stava piantato sui piedi.
(A proposito dei Buffoni, Garzoni, nel suo La Piazza Universale, scrive: Sedono a questo tempo i buffoni honorati ne’ seggi di dignità molto elevata, e fra tanto languiscono i dotti, vedendo esser tornato il tempo del Gonella – N.d.A.)
Pur avendo Borso promesso il Ducato a Niccolò, figlio di Lionello, gli succedette invece Ercole I, figlio legittimo di Niccolò III.
Niccolò pareva essere dotato d’ogni virtù, era bello, magnanimo, piacevole, colto. Mal sopportava però l’autorità di Ercole, che gli aveva usurpato la Signoria. Alfine quest’ultimo lo fece prendere e decapitare, dichiarando poi che la cosa era stata fatta a sua insaputa, un tragico errore. Scacciò i colpevoli e seppellì Niccolò con molti onori, dimostrando grande dispiacere.
(L’Abate vicentino Michele Pavanello nei suoi Saggi morali, del 1792, dice, nel Saggio 3° versetto 69: Ti sia sospetto quel malvagio, che all’improvviso apparisce umile, divoto, virtuoso.
Nel Saggio 4° versetto 135: L’Arte politica dev’essere accorta sì, ma onorata: non avara ed insaziabile, non superba ed ambiziosa: molto meno poi sanguinaria. N.d.A.)
Malgrado ciò Ercole I fu un buon governante per la città. Abile guerriero, la difese dai Veneziani e da Papa Sisto IV. Inoltre l’ingrandì, inglobando nelle nuove mura fortificate buona parte del Barco, hora Ferrara Nuova nominata (L’Addizione Erculea N.d.A.). Fece poi costruire sontuosi edifici, come il Monastero di Santa Caterina da Siena e la magnifica chiesa di Santa Maria degli Angeli. Alla metà del ’500 la si vedeva però già in rovina. Vi fu sepolto nel 1505. Da Lionora, figlia del Re di Napoli, ebbe quattro figli maschi e due femmine. Furono: Alfonso, Ferrando, Ippolito, che divenne Cardinale, e Sigismondo; Beatrice, moglie di Ludovico Sforza, e Isabella, moglie di Francesco Gonzaga. E Giulio naturale.
(A proposito del Cardinal Ippolito I d’Este, l’Ariosto scrive nella dedica dell’Orlando Furioso, a lui dedicato N.d.A.):

Piacciavi generosa Herculea prole
Ornamento, e splendor del secol nostro
Ippolito aggradir questo che vuole
E darvi sol può l’humil servo vostro

Nella Signoria succedette Alfonso I, il figlio primogenito, uomo di grande ingegno, esperto nella guerra, amante dell’arte, in particolare della musica. Durante la sua Signoria ebbe varie vicissitudini: all’inizio del suo governo gli fu ordita contro una congiura. Poi dovette combattere i Veneziani e fu a lungo in lotta col Papato. Dapprima con Giulio II, che gli tolse gran parte dei suoi possedimenti e cercò di scacciarlo dalla Signoria, poi con i suoi successori. Si accordò con Adriano VI, grazie al quale riottenne quasi tutte le terre, ma la contesa riprese sotto il pontificato di Clemente VII. Infine l’Imperatore Carlo V, nell’Aprile del 1531, decise che il Duca di Ferrara dovesse pagare alla Chiesa 114.000 ducati d’oro e in perpetuo, ciascun anno 7.000 ducati per il feudo, pregando il Pontefice di riconfermarlo nel Ducato, rimettendogli ogni passata ingiuria. Il Papa però non accettò, malgrado i soldi fossero già stati depositati a Roma. Si accordarono infine il successore di Clemente, Paolo III, e il successore di Alfonso, suo figlio Ercole II.
Alfonso abbellì e fortificò la città come nessuno aveva fatto prima. Cinse di mura una piccola isola del Po, detta Belvedere, lunga mezzo miglio e larga al tratto d’una saetta. Vi costruì sopra un palazzo e vi pose ogni specie d’uccelli e d’animali. Ebbe tre mogli: Anna, figlia di Galeazzo Sforza Duca di Milano, Lucrezia, figlia di Papa Alessandro VI, e Laura, ferrarese di basso lignaggio, ma d’alto ingegno. Da Lucrezia Borgia ebbe quattro figli maschi: Ercole II, Ippolito, Francesco e Alessandro. Da Laura due Alfonsi. Quando morì, nel 1534, gli succedette Ercole II. Fu sepolto con grandi onori nella chiesa delle Monache del Corpo di Cristo.
Ercole II sposò Raneria (Renata di Francia N.d.A.), figlia di Lodovico XII, Re di Francia, dalla quale nacque Alfonso II, il quale hora governa.
Infine, nel 1570, ci resta memoria di un rovinoso terremoto che fece crollare molte case della città, tanto che il Duca e la Corte furono costretti a rifugiarsi in campagna per il timore.
Borgarucci dichiara di aver tratto la genealogia dei Marchesi d’Este dagli scritti di Mario Equicola e da alcune antiche cronache, ma vi sono altri autori che sosterrebbero che gli estensi discenderebbero invece dalla casa di Maganza.
Infatti i figli di Gaino (Gano, il traditore della Chanson de Roland che s’accordò coi Mori. N.d.A.) Conte di Pontiero Francese, dopo la morte del padre, si vergognavano di vivere in Francia. Si trasferirono perciò in Italia, fermandosi presso Montagnana, dove acquistarono molti terreni. Quando, nel 881, passò in quei luoghi l’Imperatore Carlo il Grosso, li nominò Marchesi di Scorsia e di Este. Da questi sarebbero poi discesi i Signori di Ferrara.
Dei quali Borgarucci riprende una nuova puntigliosa elencazione, specificando però che risulta meno verosimile della precedente. (La risparmierò ai lettori limitandomi a citare le parole del Garzoni nell’introduzione al suo La Piazza Universale, dedicata ad Alfonso II d’Este: Et chi non sa che gli Azzi, gli Uberti, gli Obizzi, gli Ugoni, i Rinaldi, gli Aldobrandini, i Leonelli, i Borsi, gli Ercoli, gli Alfonsi son stati tali, che di lor si può dire unitamente quel che dice Plutarco spartatamente di Fabio, et di Marcello, che furon scudo, et spada del Regno d’Italia contra i feroci insulti de’ Barbari a quella naturalmente inimici capitali? N.d.A.)
Borgarucci a questo punto, sempre continuando ad integrare l’Alberti, ci parla degli huomini illustri usciti di Ferrara.
Antonio Beccaro, Vescovo di Scutari, uomo dotto e insigne autore di opere, dell’ordine de i Predicatori. Morì ad Ancona nel 1543.
Felino Sandeo, Vescovo e auditor delle cause nel sacro palagio di Roma. Scrisse molte opere di diritto Canonico.
Gieronimo Savonarola, dell’ordine de i Predicatori. Uomo di grande santità e ingegno, come dimostrano le opere da lui lasciate, ma che venne ripagato, proprio come molti altri uomini illustri dell’antichità, con l’ingratitudine, madre di tutti i mali. Morì nel 1497.
Francesco de i Silvestri, Generale maestro dell’ordine de i Predicatori. Diede molto lustro alla sua città, poiché fu uomo che pareva esser dotato di ogni virtù. Di bellissimo aspetto, prudente, saggio, affabile, humano, e d’ingegno disposto ad ogni grado di scienza. Passò alla vera vita il 19 settembre 1528, a 54 anni.
Giovanni Maria Riminaldo, eccellente dottor di leggi, molto apprezzato per la sua prudenza e saggezza dal suddetto Antonio Beccaro.
Peregrino Prisciano, anch’egli famoso dottore. Molto noto come diligente ricercatore della storia antica della sua patria, che descrisse in nove volumi. Lo stesso Borgarucci dichiara di averli visti personalmente a Ferrara. Fu grande conoscitore della lingua greca. Morì ai tempi del Duca Ercole I.
Lodovico Ariosto, che nel suo Orlando Furioso fu capace d’inventare dei personaggi e delle vicende talmente realistiche che paiono non favole, ma vere historie.
Celio Calcagnino, oratore e elegantissimo poeta. Canonico ferrarese, ottimo conoscitore della lingua greca e latina. Abbandonò i mortali nel 1540.
Livio Gregorio Giraldi, uomo di grande ingegno e dalla memoria talmente prodigiosa, che pare che quello che haveva letto una volta, sempre gli fosse presente.
Ludovico Bigo, che orna la città con i suoi versi in latino.
Alessandro Guarino, secretario fedele di Ercole Duca, elegante oratore.
Gasparo Sardo, eccellente historico della famiglia d’Este.
Ha anche partorito questa inclita città capitani di militia:
Tadeo e Bertoldo da Este, l’uno del 1447, l’altro del 1463. Entrambi Capitani delle milizie veneziane, come scrivono Biondo, Sabellico e Corio (Bernardino, 1459-1519). Il secondo morì nella Morea, combattendo valorosamente contro i Turchi.
Sono usciti etiandio d’essa altri dignissimi ingegni nell’arti mecanice:
Galasso, eccellente pittore, che dipinse l’Ascensione della Beata Regina dei Cieli di Santa Maria del Monte sopra Bologna e lasciò belle e artificiose prospettive nella Cappella di San Stefano della Chiesa di San Domenico.
Lorenzo Costa, anch’egli pittore, che lasciò numerose opere a Bologna e nella Chiesa degli Angeli.

Si torna ora alle parole dell’Alberti, che passa a descriverci il territorio a Nord del Po, come già lo si vedeva nel ’500, cioè l’attuale Polesine.
Riguardo a questo termine, Polesino, già usato in precedenza per il Polesino di San Giorgio, il nostro autore ci spiega che, secondo quanto scrive Sabellico nel primo libro della 4ª Deca delle cose de’ Venetiani, significa “grand’isola” e deriverebbe dal termine Polineso, grande isola, ottenuto trasportando una sillaba.
(Vi sono altre spiegazioni. Una delle più accreditate lo farebbe derivare dal termine veneto polla, pozza d’acqua sorgiva, ed avrebbe il significato di “terra delle polle”. Un’altra dal greco-bizzantino ïïëãêåíüò, “che ha molti vuoti, poroso” N.d.A.)
Il Polesino di Rovigo è così chiamato dal Castel di Rovigo, dal latino Rodigium, che secondo Prisciano fu edificato per volere del Papa. (Nel 920 d.C. e, secondo le Tavole copiosissime dell’Alberti, si tratterebbe di Giovanni X. Rovigo deriverebbe dal greco ñüäïí, rose. Cosi fu cantata dall’Ariosto N.d.A.):

la terra in cui produr di rose
le dié piacevol nome in greche voci

Le diedero grande fama Bartolomeo Roverella, Arcivescovo di Ravenna, uomo retto e colto, e Lodovico Celio, famoso per essere molto ornato di lettere greche e latine.
Secondo l’Alberti tutta la zona tra l’Adige e il letto principale del Po che scorreva da Codrea a Consandolo, era abitata dagli Assaggi Toscani, come confermerebbe Plinio nel 15° capo del 3° libro, dicendo che furono questi che per primi fecero le fosse, cioè i canali di scolo, attraverso questi luoghi. Ma Annio (Lucano Marco Annio, 39-65 d.C.), ne’ Comentari sopra Catone, spiega che si deve dire Saggi Toscani, come aggettivo, proprio per la loro saggezza e lungimiranza. Poi vi abitarono i Boii, presso il mare e i Cenomanni all’interno, secondo le mappe di Tolomeo (Claudio, II sec. d.C.), e infine i Senoni, come dice Livio nel 5° libro: Senones recentissimi advenarum ab Usente flumine usque ad Athesim fines habuere. I Senoni giunsero per ultimi ed occuparono le terre dal fiume Usente fino all’Adige. Anche questi però furono poi soggiogati dai Romani, come dimostra Polibio.
Furono proprio i Saggi Toscani, secondo Plinio, che avrebbero costruito in questi luoghi la Fossa Filistina. Prisciano ce la descrive: cominciava sotto la Rocca di castel Nuovo, proprio di fronte a Sermito, e portava le acque del Po attraverso Seriano, Tresenta, Giagnolo, castel Gulielmo, Maneggio, San Bellino, villa di Comedato, ora detta Fratta, Gavignano, villa Martiana, Arquade, Cornoti, Gragnano, Borseda, S Apollinare, Romagnano, Balcarno, Grumulo e Cerognano. Poi sfociava nel Tartaro e, insieme con questo, entrava nelle paludi di Adria, dove sul mare formava il porto di Filistina.
Nei secoli successivi le fosse non vennero più tenute in ordine e tutta la regione s’impaludò. Tanto che il Tartaro e il Menaco, che nascono nel territorio veronese, vi si gettavano, insieme ad un ramo dell’Adige che si staccava presso Castagnano e villa Bartolomea. A quei tempi non esisteva ancora quel Canale (Oggi Canal Bianco N.d.A.) che scorre tra Maneggio e Castel Gulielmo, e che attraversa poi tutta la regione convogliandone le acque.
(Castelguglielmo deve il proprio nome a Guglielmo III degli Aleardi Marcheselli, uomo potente di Ferrara, che nel 1146 fece ricostruire il Castello, probabilmente su una costruzione già esistente. Secondo i documenti questo era a pianta circolare, munito di una torre d’avvistamento. Le sue ultime vestigia caddero la notte del 29 settembre 1780. Boccaccio vi ambientò una delle novelle del Decamerone. Nelle vicinanze del paese si trovava un posto di dogana tra la Repubblica Veneta e il Ducato di Ferrara, contrassegnato da un bassorilievo in tufo col leone alato di San Marco. N.d.A.)
L’Alberti, nella sua opera, ci descrive inoltre le altre città della Romagna Transpadana.
Innanzitutto, ci ricorda il luogo detto Dorso dove sorgeva l’antichissima città di Spina, chiamata così dal fiume Spino, secondo quanto scrive Stefano (Di Bourbon, 1190-1261):
Dionigi di Alicarnasso (I sec. d.C.), nel 1° libro delle historie, ci racconta invece come la città fu fondata dai Pelasgi, partiti dalla Grecia e dall’Asia, per ordine dell’Oracolo di Delfo. Indirizzatisi verso l’Italia, allora detta Saturnia, risalirono l’Adriatico e giunsero a Spineto, una delle bocche del Po. Qui alcuni scesero lasciando altri a guardia delle navi. A terra costruirono un accampamento e poi lo circondarono di mura. Essendosi questi ben sistemati, le navi poterono partire verso altri lidi. Spina divenne man mano sempre più forte e ricca grazie ai commerci sul mare, tanto che per molto tempo poté inviare a Delfo le ricchissime decime dei suoi guadagni. Questi tesori si potevano ancora vedere nel tempio di Delfo e alcune scritture testimoniavano la grandezza del suo impero marittimo.
Strabone (63 a.C.-19 d.C.), nel 5° libro, conferma quanto detto, ma riferisce che ai suoi tempi la città era ridotta a una picciola contrada, per essere stata invasa e distrutta dai Barbari (Galli N.d.A.) Plinio nel capo 15° del 3° libro, ritiene diversamente che il suo fondatore sia stato Diomede. Catone (Marco Porcio il censore, 234-149 a.C.) nel 13 cap. dei frammenti, concorda i vari pareri dicendo che fu fondata dai Pelasgi e, in seguito, restaurata da Diomede.
Il nobile Monastero della Pomposa era abitato, come dice Prisciano, da gran numero di monachi per il servitio di Dio. Un tempo vi visse in solitudine San Guido, Abate da Ravenna, della famiglia degli Strambiati. Si vede ancora tra i boschi la sua abitazione, ma hora è in comenda.
Vicino al mare esisteva poi un’enorme palude, ricca di pesci, chiamata Sette Mari. Si trovava presso la città di Adria o Atria, che fu edificata, secondo Trogo (Pompeo, I sec. a.C.-I sec. d.C.) nel 20° libro, dai Greci, e precisamente da Diomede, loro Capitano. Secondo Catone, invece, dagli Etruschi. E Tolomeo crede fosse abitata dai Veneti. Fu comunque in seguito Colonia de’ Toscani, come dice Polibio. Di lei scrive Trogo: Adria Illyrico mari proxima, quae Adriatico mari nomen dedit.
Più a sud, sempre presso il mare, si trova un altro stagno che gira intorno 12 miglia, dove è posta la Città di Comachio. Giovan Pietro Ferretto, Vescovo di Milo e insigne storico, sostiene che secondo quanto ha ritrovato nei documenti degli antichi privilegi della Chiesa di Ravenna, anticamente questa città era chiamata Cimaculum, dal greco cimati, le onde marine, per essere posta fra queste. La qual città fu profondata ai tempi che Adria sommerse. Ma sulla sua origine l’Alberti dice di non aver trovato memoria presso gli antichi. Fu però già ricca, e dotata di una ragguardevole flotta, già ai tempi dei Goti. Biondo racconta che fu distrutta dai Veneziani nel 931 d.C. per aver dato aiuto ad Alberto, figlio di Berengario, contro di loro. Da allora in poi non ha più rialzato il capo e, secondo l’Alberti, essa era ridotta ad una contrada disabitata. Si traggono comunque dalle sue paludi il sale e grande abbondanza di pesce, soprattutto cefali e anguille, che nel mese di ottobre cadono a migliaia nei trabucchi predisposti dai pescatori. Vengono poi salate e commercializzate in tutta la Romagna e anche oltre, tanto che i Marchesi di Ferrara traggono tanta ricchezza da questi pesci, quanto dai dazi. Questa palude sbocca nel mare a Magna Vacca.
Nell’entroterra, secondo Prisciano, esisteva la Fossa Pelosella (Anche Fossa della Polisella. Derivava il suo nome dalla pelosella, hieracium pilosella, comunissima erba delle composite con capolini gialli e foglie cotonose, ha proprietà depurative N.d.A.). Fu scavata per scaricare nel Po le acque delle cupe e profonde paludi di quella zona, insieme a parte dell’acqua dell’Adige. Questo luogo è famoso per la vittoria navale, combattuta sul Po contro l’armata dei Veneziani, che avevano risalito il fiume per attendere l’arrivo delle truppe di terra, durante la guerra contro la Lega di Cambrai. Vittoria ottenuta dal Cardinal Ippolito d’Este, il 22 dicembre 1509, con l’aiuto del signor Allegra, Capitano di Lodovico XII, Re di Francia, Galeazzo Sforza da Pesaro e Lodovico Pico dalla Mirandola, Capitani dei cavalieri di Papa Giulio II e Ramaciotto da Scarcalasino, Capitano dei suoi fanti. Dopo la vittoria vennero portate a Ferrara, attraverso il Po, 11 galee, 5 fuste e 2 marani. Altre 5 galee furono affondate nel fiume, con 3 grippi e con le munizioni. 4.000 soldati veneziani vennero uccisi e scacciato Angelo Trivisano, Capitano dell’armata. 70 bandiere nemiche, con i rostri e i becchi delle galee, vennero appesi nel Duomo, come trofei. Dopo qualche tempo, però, fatta la pace, tutto venne restituito.
(Per dare voce anche all’altra “campana” in questa contesa possiamo riportare quello che scrive Francesco Sansovino nella sua opera Venetia città nobilissima et singolare, del 1663, parlando delle opere del Doge Leonardo Loredano:
– Hebbe assai a che fare per l’animosità di Papa Giulio II. Il quale huomo invitto, e feroce, deliberò di ricuperare le terre, e le giurisdizioni alienate per qualsivoglia cagione, di Santa Chiesa. Onde tessuta una lega in Cambrai, da i primi Principi del mondo contra la Republica, si divisero in quella il suo stato fra loro – di maniera, che pareva, che fosse venuta la fine dell’Imperio Veneto, quando i Padri con animo veramente costante, prudente, e invitto, s’armarono sotto il governo del Conte Nicola Orfino, – e di Bartolomeo d’Alviano Capitani principali – Si guerreggiò adunque in Lombardia, nel regno di Napoli, in Romagna, nella Marca Trivisana, e in diversi altri luoghi con diversa fortuna. N.d.A.)
Il Volaterrano, nel 4° libro dei Comentari Urbani, ci racconta che Francolino era una fortezza costruita dai Marchesi d’Este a salvaguardia dei confini del Ducato. Ora, dice l’Alberti, è solo un luogo di sosta per i forasterieri che vogliono passare a Vinegia. Vi si vede, comunque, un bel palazzo del quale fu proprietario Giovan Maria della Sala, nobile cavaliere ferrarese. Gli fu donato da Alfonso d’Este per i suoi meriti.
L’Alberti ci ricorda che esisteva anche un antichissimo e grossissimo albero, chiamato Olmo Formoso, situato poco lontano dalla Fossa Burana. Prisciano riteneva segnasse il confine della Romagna, posto invece, secondo l’Alberti, sul fiume Scultenna, cioè il Panaro. Perciò egli pone il castello di Bondeno nel territorio della Lombardia. Il nome di Bondeno deriva dal termine Bondinco che, secondo Plinio nel 15° capo del 3° libro, in lingua Ligustica (Ligure N.d.A.) significa “senza fondo”, proprio perché in quella posizione anticamente il letto del Po sarebbe stato molto profondo. Bondeno faceva parte dei domini dei Marchesi d’Este ed era questo castello assai civile.
Proseguendo lungo il corso del Po verso Ferrara, si arriva infine alla contrada di Ponte di Lago Scuro, dove esiste il porto per attraversare il fiume.
Con questo concludo la descrizione della città di Ferrara e della Romagna Transpadana secondo quanto ci ha lasciato Fra Leandro Alberti, bolognese, nella sua “Descrittione di tutta l’Italia”. Ho cercato, per quanto ho potuto, di essere fedele al testo e di aggiungere solo alcune cose che ho trovato presso altri autori. E chi avrà la bontà di leggere questo mio lavoro spero davvero che, se troverà mancanze o imprecisioni, vorrà, proprio come dice l’Alberti “più tosto iscusarmi amichevolmente, che malignamente dannarmi”.


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