A te,
di tutte le muse
più bel muso.
A G. N.
I. L’incontro
Avevo da poco intrecciato (da giugno, e come potrei non ricordarmi del mese in cui cadeva, ogni anno, il nostro anniversario?) una relazione con una ragazza dai bei capelli corvini di nome Ginevra quando per caso cominciai a lavorare come corriere.
E “intrecciato” era la parola giusta, poiché quando ci incontrammo una sera in un locale, una sera d’estate, io stavo da tre anni con un’altra ragazza, ma la nostra relazione andava lentamente spegnendosi o meglio involvendo in una stanca amicizia senza più stimoli o quasi, al di là di qualche mostra insieme, concerto o altro evento interessante, mentre lei, a quanto mi disse, frequentava senza troppo entusiasmo un ragazzo conosciuto un mese prima in piscina, e conosciuto, ci teneva a puntualizzare, lei personalmente, cioè fu lei a notarlo e a presentarsi a lui.
Per la verità non ci eravamo affatto estranei dai tempi di un campeggio estivo in montagna, ma senza quasi notarci, al di là di una semplice e superficiale coabitazione.
Quella sera ero in compagnia di alcuni amici quando la rividi seduta a chiacchierare, e qualcosa mi spinse ad abbandonare il gruppo per dirigermi al vivace tavolino.
Ci salutammo con la confidenza dei vecchi amici ma con la complicità e la malizia della nuova situazione.
Ricordo, dopo qualche scontato convenevolo, mi gettai in ginocchio davanti a lei inscenando una farsa per chiederle di uscire una delle prossime volte, ma siccome l’alcol bevuto in quantità produceva naturalmente i suoi effetti, invece di chiederle il suo le scrissi il mio numero su un tovagliolo di carta bianca, divenuto per l’occasione un romantico appunto, e con quella fugace promessa ci lasciammo.
Quella notte completai la sbronza in discoteca, e lei non so che fece.
Durante il viaggio, in un attimo di lucidità mi picchiai il palmo sulla fronte esclamando:
“Che idiota! Invece di farmi dare il suo, gli ho dato il mio di cellulare!”.
Ma un coro di amici, nel comune interesse di scacciare ogni ombra di malumore dall’avventura a cui ci stavamo preparando, accorse subito in mia difesa assicurandomi:
“Stai tranquillo, Corrado, vedrai, ti chiama lei…”.
Con quella confidenza e ferma convinzione che sono solo infusione di morale, e la cui altra faccia sono il più totale disinteresse e la più assoluta incoscienza.
Ma dopo alcuni giorni, o forse addirittura l’indomani, una voce mi chiamò al telefono ad avverare la cieca profezia.
Era lei, e la nostra storia cominciò…
“Serata da incorniciare
quella di ieri.
E da appendere al cuore.
Noi due si mette le ali?”
II. Gelosia
Come si può capire dalle premesse, al di là di una semplice curiosità, non vi era nulla né nelle apparenze né nelle intenzioni che lasciasse presagire in noi qualcosa di più di un casuale incontro, certamente destinato a rimanere tale in poco tempo.
Ma non era ancora trascorso il primo mese che cominciammo a diventare odiosamente gelosi l’uno dell’altro.
Cupido – era evidente – in un attimo di distrazione, aveva preso di mira i nostri cuori, e se non al primo strale, certo ne fece il bersaglio preferito per le sue seguenti esercitazioni, prima di vuotare la faretra.
Così, uno per un motivo, l’altro per l’altro, dopo un mese rimanemmo soli.
Soli in due.
Solo noi due.
“Ma m’hai.
M’ami davvero?
M’ami mai?”
III. L’anno come corriere
Il periodo durante il quale lavorai come corriere non abbraccia un anno intero, ma occupa, grosso modo, l’arco di tempo compreso tra un inverno e il successivo autunno, interrotto dal lieto affacciarsi di una bella primavera e l’irrompere di una calda estate.
La stagione migliore era ovviamente quella estiva, quando si lavorava meno e meglio.
Le consegne diminuivano fino a un numero di trenta o quaranta, e ciò, per il lettore che non lo può sapere, significava lavorare allo stesso ritmo dei comuni mortali.
Nel grande capannone, completamente inondato di luce che filtrava dalle alte e ampie vetrate, tra i colleghi si infittivano le risate, ogni giorno più frequenti, fra i pacchi che volavano di braccio in braccio, sopra le teste che li schivavano, e al contrario non si udivano che raramente le terribili bestemmie dei ritardatari del giorno, del livido questuante che cerca senza frutto l’ultimo pacco che lo trattiene, finito per caso nella zona sbagliata.
“Dai su,
non disperare:
ogni settimana più in basso,
ogni settimana più in alto!
Speriamo!”
IV. Il primo anno con Ginevra
Il primo anno, con Ginevra, fu il più travagliato e conflittuale, il più duro e più difficile.
Il rapporto, negli anni seguenti, si stabilizzò e cominciò il beato periodo della nostra piena e imperturbabile felicità.
Ma quel primo rimase, nel calendario della mia vita, la pagina più intensa e sublimamente infernale di tutte le precedenti finora.
“Ciò che è storto
non si può raddrizzare,
e ciò che manca,
chi lo può contare?”
Qoelet.
“E lo stronzo dei messaggi,
chi lo può sopportare?”
V. Le pene d’amore
Quanto a me e alle pene d’amore che soffrivo – e che la cabina di guida moltiplicava come un caleidoscopio impazzito –, ogni buon trasportatore conosce in quale orribile schermo si trasformi il comune parabrezza, sul quale, come in un film che la mente ossessionata proietta incessantemente, sfila il funesto corteo dei propri fantasmi interiori, e a cui solo le soste, di tanto in tanto, per scaricare un pacco, o per fumare una sigaretta con un compagno improvvisato, come una sorta di liberatorio intermezzo pubblicitario, offrivano una momentanea tregua per gustare la semplice e confortante vita reale.
Se si era tristi, la tristezza diventava incubo e delirio, e quell’angusto spazio una prigione viaggiante per l’anima in pena; viceversa, se si era sereni, di buon umore, la felicità si tramutava in vera e propria ebbrezza ed esaltazione, cui favorivano e concorrevano insieme i due ingredienti più potenti per una vivace immaginazione, e cioè una relativa solitudine e la contemplazione di un paesaggio naturale, magari nel più bell’incanto di un caldo sole estivo.
“Quel tuo poderoso schiaffo
di ieri sera…
Non lo dimenticherò mai.
Solo l’amore
sa colpire a quel modo.”
VI. Mick il capo
Ricordo ancora il primo giorno che cominciai.
Ero assunto da una ditta di facchinaggio e pulizie, e facevo un po’ di tutto in giro per la città (una volta l’imbianchino, un’altra volta a riparare vecchie serrature di condomini, un’altra a ridipingere l’asfalto di un parcheggio, a raccogliere le foglie di un cortile, a sgomberare una cantina o un trasloco ecc.).
Mick era un ragazzone alto, magrissimo, il viso e le guance scavate sempre ricoperte di una dura barba nera di pochi giorni, il viso e gli occhi buoni, le maniere assolutamente gentili ma che recavano sempre impressi l’effetto dell’ennesima notizia di un lavoro fatto male, di un cliente che si era lamentato, di un affare in cui non ci aveva guadagnato.
Quel giorno Mick – così si chiamava il mio capo – mi chiese se me la sentivo di fare qualche consegna per Brustolini (un importante corriere nazionale).
Io, che quasi non sapevo cosa fosse un corriere, gli chiesi perché mai dovessi “sentirmela”.
Mi rispose che aveva un furgone fermo là alla ribalta e che aveva fatto verniciare con i colori e i loghi dell’azienda, e che un autista gli era stato a casa per il mal di schiena, e che altri sei prima di lui avevano tutti seguito la stessa sorte.
Quando me lo disse, ricordo, colsi nelle sue parole un certo tono di rassegnazione.
“Sì Mick”, risposi, “per me va bene, non ci sono problemi!”.
Dopo quella conferma, mi accorsi, il tono della sua voce non cambiò e fui un poco sorpreso.
“Non soffro più la tua mancanza.
Quando manchi,
proprio non ti sopporto”.
VII. Il pacco perduto
Durante questo periodo, lungo o breve che possa sembrare, non smarrii mai un pacco.
Solo una volta, durante un trasporto più rocambolesco del solito, andò sfasciato un pacco di cancelleria contenente risme di carta.
A parte i fogli sparsi dappertutto fu in effetti una roba da nulla.
Per la verità una volta un pacco lo persi anch’io, anche se quello fu un mistero.
Era sotto Natale.
Giunto verso sera di fronte all’abitazione del destinatario per l’ultima consegna della giornata consultai il fedele bollettino.
Il pacco era piccolo di volume, pesava poco e conteneva materiale ortopedico.
Come al solito, meccanicamente, scesi dal furgone, suonai al campanello indicato e alla risposta del citofono mi avviai ad aprire il portellone.
Quando mi arrampicai sul cassone rovistai dappertutto fra gli ultimi colli rimasti provenienti da alcuni ritiri, ma di quel pacco non c’era traccia.
Ritornai dunque al cancelletto, dove con le braccia sporte tra le inferriate un anziano signore accompagnato da due stampelle mi attendeva con un’aria a metà tra lo scocciato e l’annoiato.
Sbattei le mani un paio di volte per togliermi la polvere di dosso, quindi dissi:
“Guardi, mi spiace ma non riesco a trovarlo, con ogni probabilità sarà rimasto in magazzino. Tornerò a portarglielo domani…”.
Il signore allora chiuse gli occhi e abbassò il capo in segno di aver colto il senso del messaggio e senza aggiungere una parola si tirò su dal cancelletto con una certa eccessiva indolenza e si ritirò in casa.
Quando feci ritorno alla ribalta, mezz’ora più tardi, come un cerbero trovai Severo ad aspettarmi proprio sulla soglia del portone, ritto in piedi e immobile, con la sigaretta fra le dita.
Severo era il responsabile della filiale.
Se possibile, era ancora più magro di Mick.
Le guance scavate conservavano i segni delle profonde cicatrici lasciate da una gravissima acne giovanile.
La magrezza era anche il risultato di un temperamento estremamente nervoso e che non di rado esplodeva in collere violentissime, oltreché la conseguenza del fatto che fumasse molto.
L’unica cosa che faceva contrasto con il suo abituale vestire in blu e in nero erano le striature rosse dell’inseparabile pacchetto di sigarette che spuntava dal taschino della camicia.
Quando Severo passava era sempre con la sigaretta accesa, e ti parlava da una nuvola di fumo che lo avvolgeva completamente e che a intervalli soffiava fuori rapidamente ora dalla bocca ora dal naso.
Se poi ce l’aveva con qualcuno si sarebbe detto che gli uscisse pure dalle orecchie!
Quando invece non aveva niente da fare, e non stava fumando, sembrava un agnellino spaesato e un poco malinconico.
“Corrado!”, mi convocò dunque Severo facendomisi a un palmo dal naso.
“Cosa c’è?”, gli domandai.
“Dove hai messo quel pacco? Te lo dico io dove l’hai messo… L’hai perso!”, gridò anticipandomi.
“Ma che cavolo dici? A parte che non mi ricordo neanche di averlo caricato, e poi sarà rimasto in magazzino…”.
“No!”, mi contraddisse Severo saltando violentemente sul pavimento di cemento, “Perché stamattina è stato sparato!”.
A quella risposta così decisa mi fermai un attimo a riflettere, ma non avendo altri argomenti con cui difendere la mia tesi tentai di ridimensionare se non di minimizzare il fatto.
“Boh, a me sembra strano. Non ricordo comunque”, gli risposi, oltretutto stanco della lunga giornata.
“Non sarà mica la fine del mondo!”, insistei, “Materiale ortopedico… e che sarà mai?!”, e feci per andarmene per sbrigare le mie ultime cose.
Severo non ci vide più dal furore:
“È per questo che sono incazzato! In quel pacco c’era la protesi che aspettava da sei mesi! C’era la gamba di uno!”.
A quelle parole ammutolii.
Anche se, ancora oggi, non fui molto convinto della spiegazione che mi fu data della faccenda.
“Sono ben incazzato
per quel pacco là.
Se salta fuori
giuro che lo riperdo
di nuovo.”
VIII. Il duro lavoro
Quando iniziai facevo fino a tredici ore di lavoro al giorno.
Si lavorava anche il sabato, solo la mattina, ed era il giorno più tranquillo.
Nella prima settimana, tuttavia, il mercoledì dovetti restare a casa perché la sera prima mi venne la febbre.
A volte bastava una sola consegna per fare il pieno di fatica di tutta la giornata.
Era il caso dei colli di tessile (per fortuna non ne veniva spedito più di uno al giorno).
Questi giganteschi salami potevano pesare fino a sessanta, settanta chili, e la consegna presso l’abitazione di un ambulante era invariabilmente al piano.
Era vero che dopo un po’ sarebbe arrivato chi ti avrebbe dato una mano in un’operazione altrimenti per me impossibile, ma, come ben si intuisce, non mancava mai di essere attesa oltre il dovuto, e il mastodontico rotolo, miracolosamente, aveva già salito almeno un pianerottolo.
“Per un solo tuo bacio
faticherò oggi.”
IX. L’apprendistato
Poi si cominciava a conoscere, come si dice, la zona (la mia era la sessantacinque), cioè i nomi delle vie e dove si trovavano.
Quindi si imparava a mettere giù sempre meglio il giro, cioè a predisporre il piano giornaliero delle consegne, cosa assolutamente fondamentale e che richiedeva una certa sua logica.
Infine si imparavano a memoria gli orari di apertura e chiusura di ditte, banche, negozi, uffici, e talvolta anche le abitudini dei numerosi clienti privati.
Con un po’ d’astuzia, s’intende, il gioco era fatto.
Nell’economia del lavoro – che era il tempo – qualsiasi cosa era importante o non lo era purché facesse risparmiare al corriere qualche minuto prezioso, come ad esempio tenere a mente perfino l’orario in cui i negozianti appendono il famoso cartello “torno subito” alla loro vetrina (e che tutti leggono come “sono andato a prendere un caffè al bar” oppure “sono a scambiare qualche chiacchiera nel negozio qui di fronte”) e che, se ci si bada, è ugualmente puntuale.
“Questa settimana
che non ci vedremo
il mio miserabile cuore
invecchierà cent’anni.”
[continua]
Ha un suo Blog in cui è possibile leggere le recensioni al suo libro Corri, corriere! gli sms di un corriere innamorato apparse sulla stampa locale.